mercoledì 30 settembre 2009

H1N1

Non servono molte parole. Ormai è la quotidianità. Quotidiani, riviste, telegiornali, conversazioni al bar.
La famigerata influenza. Alcuni la temono, altri ne sono indifferenti.
Chi si occupa di HR, e come abbiamo detto altre volte, si occupa del benessere delle Organizzazioni attraverso il benessere delle persone, non può prescindere da questo tema.
In modo particolare chi è inserito in contesti multinazionali sta vivendo questo tema in modo più “sentito” e da molteplici prospettive di approccio (i lettori del post di GiuS del 22 Settembre, intuiscono a cosa mi riferisco).
In quasi tutte le aziende oggi sono apparsi i poster del WHO (World Health Organization) che in poche semplici mosse insegnano come lavarsi le mani in modo efficace.
Altri poster via via si stanno aggiungendo.
Contemporaneamente sparivano dagli scaffali dei supermercati, e dai banchi delle farmacie le confezioni della ormai famosa Amuchina (diventata trasversalmente quasi una panacea).
Il mondo anglosassone è più attento (pauroso? Previdente?), il mondo latino più disincantato (scaramantico? Superficiale?).
Tutti però si stanno misurando con questo tema.
Oggi più che mai paurosamente global. Un “giro” sui siti internet dei vari ministeri della salute offre una buona panoramica sulle culture differenti. Che fare?
Non fare nulla non è possibile. Dare troppo risalto è sconsigliato.
Ogni organizzazione mette in pratica le proprie consuetudini (riti, miti, simboli) comunicative: riunioni plenarie, intranet, leaflet sparsi nei luoghi di maggior passaggio. Ognuno utilizza il proprio “tone of voice”: discreto, rarefatto, pressante, urlante.
Le informazioni si moltiplicano, spesso si contraddicono.
Alcuni dicono che è tutta una farsa, altri sono realmente preoccupati.
La via italiana sembra essere ispirata al migliore pragmatismo: poche comunicazioni, mirate, low profile.
(Qualcuno si ricorda ancora la prima guerra in Iraq, quando i generi alimentari furono presi d’assalto? – il rischio panico da Pandemia non è uno scherzo).
Le organizzazioni più complesse si stanno dotando si sofisticati piani di business continuity, per assicurare la continuità del business.
E mentre si approntano questi piani, al contempo si esorcizzano, in qualche modo, le innate paure di cui non si ha voglia di parlare.
Nell’estate 2009, non c’è stato ombrellone alla cui ombra non sia affrontato il tema H1N1. Nei primi scorci autunnali non vi è consiglio di amministrazione che non abbia dedicato un “executive summary” al tema.
E noi come ci poniamo?
Paurosi? Ottimisti? Preparati? Distratti? Semplicemente poco interessati? O siamo tra coloro che stanno preparandosi per ogni evenienza?
Fateci sapere (se lo vorrete) il vostro parere!
Come vi state comportando personalmente, e per chi è inserito in contesti lavorativi, da un punto di vista “organizzativo”?
Eugenio Pelitti
Per non farci mancare nulla: Qualcuno avrà notato che da qualche settimana la Rai manda in onda ”Survivors”, una serie prodotta dalla BBC (revisione della serie “classica” del 1975/77). E’ il racconto di un post-pandemia....... Quando si dice il tempismo.......

lunedì 28 settembre 2009

Come si fatturano 16 milioni di euro con un gelato?

LMJ! ha da sempre nelle sue corde una vera e propria venerazione per l’istinto imprenditoriale che contraddistingue alcune persone. Ne abbiamo parlato in passato (http://thelovemyjobblog.blogspot.com/2009/05/papa-da-grande-voglio-fare.html), delineando i tre tratti che secondo noi identificano questi esseri quasi “mistici”: commitment, narcisismo e incoscienza. Ne vogliamo parlare nel post di oggi, raccontando una storia molto felice di imprenditorialità italiana. Ne parleremo – senz’altro – in futuro, proponendo delle interviste a persone che hanno scelto una strada alternativa rispetto alle classiche carriere alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore.
La storia di oggi, raccontata nei dettagli nel numero di Economy del 23 settembre 2009, vede protagonisti due giovani torinesi di 34 anni che si sono posti un obiettivo discretamente ambizioso: “tutte la mattine ci alziamo per fare il gelato più buono del mondo: questo è l’obiettivo a cui tendiamo e cerchiamo di raggiungerlo con una serietà totale”. D’altronde, meglio puntare in alto ...
Bene, questi due ragazzi hanno preparato un business plan e lo hanno sottoposto ad una famosa banca nazionale. Risultato? Una stretta di mano e 120 mila euro di debito! Ma anche le risorse necessarie ad aprire la prima gelateria Grom a Torino. 30 mq di puro gusto artigianale. La prima gelateria ha avuto un successo strepitoso, diventando un vero e proprio punto di riferimento cittadino. Da lì l’idea di crescere, esportando la formula di business in tutto il mondo. Pensate che oggi, dopo soli 6 anni di attività, potete trovare 32 gelaterie Grom in tutto il mondo. Fatturato: 16 milioni.
Qual è il segreto del successo di Grom? Di certo, un’idea di business vincente: realizzare un gelato con ingredienti purissimi, naturali al 100%; valorizzare il territorio italiano, proponendo dei gusti legati indissolubilmente alla storia del nostro Paese. Ma non basta. Dove sono finite le tre caratteristiche dell’imprenditore secondo il “modello LMJ!”? Ecco a voi:
Commitment sfrenato. Reinvestire gli utili in azienda è commitment. Potrebbe sembrare poco, ma non è così. Con i soldini guadagnati, i due soci hanno fondato un’azienda agricola a Costigliole d’Asti (Mura Mura), dove vengono coltivati alcuni degli ingredienti dei loro gelati. Nessun aereo privato, nessuna collezione d’arte in casa. Si punta piuttosto a sponsorizzare progetti ecologici di respiro mondiale.
Narcisismo sregolato. Come non specchiarsi nei titoli di giornali a loro dedicati? “Il gelato di Torino seduce New York”, “Gelato makers from Turin arrive on Broadway”, “Grom’s gelato conquers New York for Italy” ...
Incoscienza allo stato puro. Prima apertura: 2003. Dal 2007 al 2009? Tokyo, Parigi, New York. Dovrete convenire con me nel dire che questi ragazzi hanno saputo rischiare! C’è da aggiungere che i due sono proprietari di ogni punto vendita della catena commerciale, sobbarcandosi al 100% il rischio imprenditoriale.
E allora cari lettori ... siete ancora sicuri di voler essere dipendenti? Rifletteteci su! Se poi vi passa una buona idea per la testa e vi riconoscete nelle caratteristiche dell’imprenditore...
Enjoy it! Os

venerdì 25 settembre 2009

A colloquio con Stefano Accorsi … Quando il colloquio diventa uno scontro.

Dopo lo strano colloquio di Woody Allen, vi propongo un esempio altrettanto divertente di colloquio non riuscito, che ci mostrerà un’intervista trasformarsi in conflitto. http://www.youtube.com/watch?v=3AQXgPtvAtk Il colloquio di Stefano Accorsi in Santa Maradona è un completo fallimento. A mio avviso, la causa del finale negativo è riconducibile al conflitto che si instaura tra candidato e selezionatore, entrambi artefici di questa spiacevole situazione. Da una parte abbiamo un selezionatore poco professionale e – direi – compiaciuto del potere di cui si sente investito (lo stereotipo del selezionatore che, come dicevo nel post precedente, “ha il coltello dalla parte del manico”); dall’altra abbiamo un candidato per niente motivato a riuscire nel colloquio e dunque non interessato a presentarsi al meglio. L’incontro tra questi due personaggi trasforma il colloquio in uno scontro in cui il candidato sembra vincere l’ultima battaglia, ma non la guerra, il cui esito è simboleggiato dalla violenta riga con cui il selezionatore decreta la negatività della valutazione.
Il mea culpa che deve fare il selezionatore? L’ostentazione di questo presunto potere di cui si sente investito, ma che in realtà, come vi ho già detto più volte, rappresenta più un onere che un onore per il selezionatore. Questo suo gongolarsi nella propria autorità lo porta a deteriorare immediatamente il rapporto con il candidato, che per tutta risposta si chiude e diventa ostile. Questo recruiter ci mostra una delle cose peggiori che potrebbe fare chi si occupa di selezione: svilire il candidato. Quest’uomo svilisce il suo curriculum e la sua esperienza, dicendogli (o meglio, insinuando con sottile arroganza) che il suo profilo non potrà mai passare la selezione. Ho vissuto questa situazione sulla mia pelle come candidata e posso assicurare che è davvero una sensazione brutta sentirsi svalutati dopo tutti gli sforzi compiuti per arrivare ad un certo livello di professionalità. Questo tipo di atteggiamento del recruiter è un vero e proprio attacco, che molto facilmente può trasformarsi in conflitto. Inoltre, questo comportamento porta il selezionatore ad altri errori veramente banali, come anticipare l’esito della selezione in sede di colloquio (rif. …) e far trasparire i criteri di selezione. Infatti, osservando il CV di Accorsi, egli critica età, titolo di studio e voto di laurea, esperienza lavorativa. E in questo modo non solo lascia trapelare all’esterno informazioni sensibili dell’azienda (Accorsi infatti potrebbe benissimo raccontare tutto agli amici e innescare il passaparola), ma lascia anche trasparire la propria incompetenza: se il profilo non è in linea con quanto richiesto dall’azienda, perché chiamare il candidato a colloquio? In effetti, sembra proprio che non sia per niente interessato ad approfondire il suo profilo, perché gli pone domande banali, senza indagare sulle risposte, inizialmente un po’ criptiche e poi palesemente ironiche, del candidato. In più, pone anche una domanda estremamente riservata al candidato, sul reddito di famiglia, probabilmente al solo scopo di umiliazione. Ovviamente qui la situazione è esasperata dall’atmosfera cinematografica, ma una verità di fondo resta: il comportamento negativo del selezionatore danneggia oltre all’immagine aziendale, anche lo stesso rapporto con il candidato che può diventare palesemente ostile. Del resto però anche il candidato ha un concorso di colpa in questo conflitto. Dopo la provocazione del selezionatore, non fa nulla cambiare la sua opinione: a quel punto si chiude in se stesso e si rifiuta di partecipare attivamente al colloquio, rispondendo piuttosto con un’altra provocazione. Così facendo decreta la sua valutazione completamente negativa. In effetti, dalle scene successive del film sappiamo che l’atteggiamento del protagonista ai colloqui di lavoro è sempre lo stesso, tanto che il suo amico, durante un litigio, gli rinfaccerà: “Sono io quello che va ai colloqui sapendo già che li vuole perdere?”. A mio avviso, una volta iniziato un colloquio, vale comunque la pena dare il massimo di sé per passare la selezione. Per prima cosa, non è detto infatti che l’azienda non sia un valido posto in cui lavorare, solo perché il recruiter non è professionale. Giocare il tutto e per tutto per promuoversi al meglio potrebbe aumentare le probabilità di far cambiare idea al selezionatore e aprire l’accesso ad un buon posto di lavoro! La provocazione e il conflitto sono atteggiamenti non costruttivi, che portano invece con certezza alla sconfitta. E poi, come vi ho già detto, ogni colloquio è una palestra: anche se la valutazione finale resterà negativa, il candidato avrà fatto pratica rispondendo a domande nuove e cogliendo l’opportunità per migliorare le proprie argomentazioni. Insomma, il consiglio per entrambe le parti è evitare sempre il conflitto, anche quando il proprio interlocutore fa di tutto per “mettere i bastoni tra le ruote”. Aprirsi alla relazione con l’altro non potrà danneggiarvi più di un aperto conflitto, ma anzi potrebbe favorire i vostri scopi (in questo caso promuovervi al meglio) e arricchirvi dal punto di vista professionale/personale.
Alice

martedì 22 settembre 2009

"Tutto il mondo è paese" o "Paese che vai, usanze che trovi" ?

Quale dei due proverbi secondo voi rispecchia di più la realtà?
Ma si, basta pensare al numero di McDonalds nel mondo (più di 30.000 in 119 paesi), alla storia della Coca-Cola ormai bevuta in tutti gli angoli del globo, oppure ai nuovi fenomeni del momento come l'exploit del sushi in Italia; per non parlare dell'inglese, ormai lingua di tutti i popoli..e sicuramente ci viene da dire che tutto il mondo è un paese e lo sarà sempre di più. Ma è proprio cosi'? Oppure stiamo dimenticando qualcosa?.. Shanghai, uno dei tanti indimenticabili giorni tra agosto e dicembre 2007. Sono in stage nel dipartimento HR di un grande fondo finanziario cinese, da poco è entrato a far parte del team anche il mio conquilino americano Matt. Lavoriamo in un ufficio al 14 piano di uno dei tanti grattacieli di Pudong, l'area industriale di Shanghai, e da qui sembra di stare in Europa.. Ci sono tutti questi business-men che arrivano un pò spaesati dall'Europa, senza sapere nulla della Cina, si sentono superiori, all'avanguardia, migliori in tutto e per tutto. Li vedi entrare negli alberghi di lusso, girare in auto con l'autista e stare lontani da qualsiasi cosa definibile "cinese".. La storia è sempre la stessa, tornano in occidente con un pezzo di carta in mano, il contratto firmato con tanta facilità per avere una fusione o una joint-venture con qualche ricca società cinese. Ma vedete questi business-men sono come il Titanic, fieri e veloci, ma non si accorgono di essere stati speronati dalla parte sommersa di un iceberg.. quale iceberg? Quello della cultura (intesa come abitudini, usanze, storia, retaggi, ecc..). La cultura è un iceberg, di cui vediamo solo la punta fuori dall'acqua (i modi di fare, i comportamenti), ma le radici, l'importanza delle usanze, dei riti, quelle non si vedono, sono la parte sommersa. E così, dopo qualche mese, i brillanti business-men sono inviati nuovamente a Shanghai, bastonati dai propri capi perchè le cose non funzionano bene o peggio non funzionano affatto! Le società occidentali pensano al profitto, le controparti cinesi pensano a fare bella figura con il governo, ad incrementare l'occupazione e farsi stimare. Giorno dopo giorno il business-man è sempre più irritato, non capisce...cavolo e pure c'è un contratto scritto, firmato e controfirmato! Davanti a queste scene, quelli come me, Matt, e tanti altri occidentali che la Cina l'hanno vissuta e vi ci sono confrontati, non possono che sorridere e vedere il business-man affondare. Troppo occupato a farsi vanto della propria cultura non si è reso conto che in Cina un contratto scritto vale meno che niente, quello che conta è la stretta di mano, la negoziazione con i personaggi chiave dell'azienda, che avviene a tavola, davanti a qualche prelibatezza cinese. Il business-man non sa neanche che in Cina c'è il cosiddetto fenomeno del "Guanxi", il famoso "scambio di favori"... io dò qualcosa a te, cosi tu dai qualcosa in cambio a me. A volte basta un piccolo regalo personale, un pensiero dal paese di origine, un invito a cena.. per i cinesi le relazioni personali sono il primo punto per costruire delle buone relazioni di business..non si tratta di corruzione. E chissà come si è comportato a tavola, circondato da manager cinesi che gli riempivano il bicchiere per poi brindare dicendo "Ni sueì, wo ganbei!", formula di grande rispetto: "tu sorseggi, io bevo alla goccia"...sottointeso: in tuo onore! Probabilmente non ha mai ricambiato il gesto... probabilmente alla terza volta che gli è stato riempito il bicchiere ha detto basta senza nemmeno giustificare, senza sapere che dire basta all'invito di un brindisi è poco rispettoso e non proprio apprezzato. E cosa avrà risposto all'offerta di un pezzetto di medusa, di una zampa di gallina o di altre pietanze inusuali?: no grazie!
"Non apprezza la nostra cultura = non apprezza noi", sicuramente è questo ciò che hanno pensato i manager cinesi... e quindi alla fine hanno firmato un pezzo di carta, perchè fondersi con una ricca società occidentale è la miglior cosa che possa capitare, ma la mano non l'hanno stretta; il rispetto reciproco, l'incontro delle culture non c'è mai stato..
Sarebbe bastata un po di consapevolezza, un pò di apertura mentale, invece di considerare il tema cultura "aria fritta" e le cose sarebbero state molto diverse. Morale della favola: Un McDonalds a Shanghai non è un McDonalds, è un "McDonalds cinese"... e così è in tutte le parti del mondo. Ciò che è internazionale si adatta e si modella alle usanze dei luoghi: in una parola "GLocalizzazione" (http://it.wikipedia.org/wiki/Glocalizzazione) e non, erroneamente, globalizzazione.
Siete d'accordo?.. nell'attesa dei vostri feedback e commenti non mi resta che brindare con voi: "Ni men sueì, wò ganbei" (Voi sorseggiate, io bevo alla goccia.. sottointeso: in vostro onore!).
Enjoy it,
GiuS

domenica 20 settembre 2009

Entusiasmo e Dedizione

"ciao ragazzi!
sono un'assidua lettrice del vostro blog, mi affascina molto l'entusiasmo e la dedizione che ci mettete. oltre all'innegabile scopo divulgativo ed informativo, quello che sicuramente colpisce di più è la vostra passione in questo lavoro. mi chiedo: cosa spinge una persona a fare il recruiter? come si fa a gestire la responsabilità di valutare una persona in cosi poco tempo? francesca"
Ho voluto dare spazio al commento di Francesca perchè lei rappresenta il "nocciolo duro" dei lettori di Love My Job!. Quelli per cui vale la pena continuare, quelli che non vorremmo mai deludere.
E allora, Francesca, mi sono piaciute in particolare due parole che tu hai utilizzato: entusiasmo e dedizione. Scrivere, commentare, condividere sono davvero cose che ci entusiasmano ... Ma cosa sarebbero senza dedizione ed impegno quotidiano? Se non avessimo quella voglia costante di "guardarci al lavoro", di analizzare tutto quello che facciamo per poi sintetizzarlo in un semplice post ... LMJ! meriterebbe di esistere?
Unire entusiasmo e dedizione è la sfida dei nostri giorni. E si tratta dello sforzo che chiediamo anche a voi: nella lettura, nel commento, nel feedback, nella condivisione.
In più, entusiasmo e dedizione sono due delle caratteristiche fondamentali che ricerchiamo nei nostri autori. E' con fierezza che mi sento di dire: non ci si improvvisa autori di LMJ!.
Detto questo, vi diamo appuntamento a mercoledì. Sono sicuro che GiuS avrà cose interessanti da dirci a proposito del mondo della comunicazione. Un'ultima nota: se qualcuno fosse interessato, noi siamo sempre disponibili ad allargare il team degli autori permanent. Ma ricordate bene: entusiasmo e dedizione.
Os

venerdì 18 settembre 2009

A colloquio con Woody Allen… ovvero mantenere il giusto equilibrio nella conduzione del colloquio

Rieccoci ai nostri commenti sui colloqui con un post tutto dedicato a consigli per i selezionatori, che spero possano essere utili anche a tutti i candidati per capire meglio la professionalità del loro interlocutore. Di seguito il link a cui mi sono ispirata questa volta: http://www.youtube.com/watch?v=nV0G7VaRfLc Un giovane Woody Allen in Prendi i soldi e scappa ci mostra un imbarazzante selezionatore alle prese con un candidato particolarmente intraprendente, che al termine del colloquio ha completamente preso il controllo della situazione. Di solito il colloquio viene considerato come uno scambio asimmetrico, in cui è il selezionatore ad avere “il coltello dalla parte del manico”. Spesso non ci si rende conto che si tratta invece di uno scambio reciproco, il cui equilibrio è in realtà piuttosto fragile. Certo, il candidato è esposto perché deve presentare se stesso e persuadere chi ha di fronte, ma il selezionatore dall’altra parte ha il dovere altrettanto pressante (e stressante?) di condurre il colloquio nel modo ottimale per stimolare il candidato ad esprimersi al meglio e lasciare una buona impressione dell’azienda a prescindere dall’esito della selezione. Personalmente, durante i miei primi colloqui come selezionatrice, ero sicuramente più agitata io dei candidati che incontravo! Come salvaguardare dunque la corretta conduzione del colloquio di fronte a candidati particolarmente problematici? Prendendo spunto dal video, vorrei farvi notare che il selezionatore inizia il colloquio dicendo: “Il suo nome, prego”. Questo significa che egli non ha idea di chi abbia di fronte. E’ invece importantissimo per un buon recruiter conoscere il profilo del proprio candidato, prima dell’incontro. Mai pensare che il colloquio sia limitato all’intervista: la fase di preparazione (assieme all’ultima fase della valutazione) è una premessa essenziale, la chiave della buona riuscita dell’intero incontro. Analizzare prima il profilo del candidato (almeno su carta) aiuta ad individuare le modalità migliori di relazione, a costruirsi una scaletta mentale di domande, a sapere quali caratteristiche indagare rispetto alla job description, ecc. Avere una preparazione preventiva è come aver disegnato un percorso su una mappa: se un ostacolo sul tracciato dovesse obbligare a una deviazione, sarà più facile ritrovare la direzione giusta ritornando sul nostro sentiero. Notate poi le domande che avanza il selezionatore: “Ha avuto esperienze in qualche ufficio? Di che tipo di ufficio si trattava? Ha qualche esperienza nell’uso di un computer elettronico? In che ditta? Sua zia di che si occupa? Si trattava forse di...?”. A queste domande, un candidato particolarmente chiuso può benissimo rispondere “sì/no” o comunque esprimersi con una singola parola. Ricordo bene la prima simulazione di colloquio che ho fatto col mio tutor durante il mio primo lavoro, prima di condurre le interviste in modo autonomo; il consiglio che mi ha dato i quell’occasione è: fare sempre domande il più possibile aperte al candidato. Il recruiter deve incoraggiare il candidato a parlare il più possibile, innanzitutto perché può conoscere meglio la persona che ha di fronte e poi per evitare di formulare sempre nuove domande per indagare più a fondo. Direi che nel discorso affrontato in una selezione almeno l’80% delle parole devono venire dal candidato. Il selezionatore del film poteva chiedere, ad esempio: “Mi parli delle sue precedenti esperienze lavorative. Può descrivermi l’ufficio dove lavorava? Mi racconta qualche esperienza in cui si è trovato a lavorare su un computer? Cosa produceva la ditta per cui ha lavorato in precedenza e com’era organizzata?”, e così via. Ma la cosa più difficile è forse reagire alle provocazioni di candidati particolarmente aggressivi. E’ difficile perché bisogna trovare la giusta via di mezzo tra la reazione completamente arrendevole del selezionatore nel finale del film sopracitato e la reazione invece di risposta aggressiva. Occorre controbattere in modo da rinsaldare il proprio ruolo, senza sconfinare però nella scortesia, perché il recruiter ha il dovere di lasciare sempre un’impressione positiva dell’azienda, che in quel momento sta rappresentando personalmente. Ma su questo non posso dare nessun consiglio, se non quello di usare sempre l’educazione: per il resto solo l’esperienza pratica può insegnare. Infine mi ha colpito particolarmente quanto detto dalla voce narrante al termine del video e cioè che il protagonista ha messo il selezionatore in uno “stato confusionale”. Non c’è niente di più vero: a volte questi colloqui particolarmente problematici rendono difficile la fase di valutazione. Il colloquio infatti non è altro che una relazione a due e ogni relazione nella vita implica la presenza di emozioni. Durante un colloquio disorientante come quello in esame, le emozioni suscitate sono molte e a volte contrastanti. Un buon consiglio per far chiarezza nella fase di valutazione emerge dal libro La selezione. Metodi e strumenti psicologici per scegliere le persone, di L. Borgogni e C. Consiglio (http://www.francoangeli.it/Ricerca/Scheda_Libro.asp?ID=15252&Tipo=Libro&titolo=La+selezione.+Metodi+e+strumenti+psicologici+per+scegliere+le+persone): “per ‘capirci qualcosa’ di ciò che avviene nel qui e ora della relazione con il candidato, è necessario attingere ad una specifica competenza professionale, che consenta di utilizzare capacità auto-riflessive ed auto-osservative; in altri termini è necessario saper riconoscere ed utilizzare le proprie emozioni attivate dal e nel rapporto con l’altro al fine di trarre informazioni sul rapporto medesimo e di conseguenza sull’interlocutore”*. L’autore propone dunque alcune domande di “interrogazione emozionale”, delle quali riporto qui quelle più significative rispetto al nostro esempio: “Che impressioni ho avuto? Come mi sento di fronte a questa persona? Mi sento riconosciuto nel mio ruolo? Mi sento attaccato o aggredito? Mi sento professionalmente rispettato o percepisco una svalutazione nei miei confronti? Sento che non posso approfondire troppo alcuni aspetti? Sento che vi sono delle aree di silenzio?”. Questo tipo di domande permettono di riacquistare la lucidità e l’obiettività necessarie per una valutazione corretta rispetto ai criteri dell’azienda. Per riassumere, possiamo dire che gli ingredienti base per la corretta conduzione di un colloquio “problematico” siano: la preparazione, la tipologia di domande, l’interrogazione emozionale e… una buona dose di autocontrollo! Un animo forte è quello che, anche nelle più forti emozioni, non perde il proprio equilibrio interno - Von Clausewitz. *Vedi link per info sul libro. Citazione dal Cap. 7, Par. 1.4. La dinamica relazionale.
Alice

martedì 15 settembre 2009

Avvocati o Notai?

Mettiamo subito le cose in chiaro: questo è un argomento che mi sta a cuore. E prendo spunto dalle parole scambiate con un HR Director, parole che mi hanno fatto pensare. Cosa significa essere HR? Come dobbiamo interpretare il ruolo? Da avvocati o da notai?
Vi spiego la metafora, anche se alcuni la conoscono già ed altri ne hanno intuito il significato. Il notaio è in una posizione di forza. Fa parte di una vera e propria casta. Quanti notai ci saranno in Italia? 5000 per 60.000.000 di persone? L’accesso al mestiere è complicatissimo: le barriere sono a volte invalicabili. Il notaio parte – come già detto – dal presupposto di essere necessario ed “uno dei pochi”: una semplice firma può valere migliaia di euro. E il timore che incute? Ne vogliamo parlare? Quell’arredamento “pesante”, le pile di documenti, i titoli appesi al muro; i clienti a volte hanno quasi paura di esprimere la loro opinione. Andare dal notaio significa confrontarsi con una vera e propria AUTORITA’. Mica si può contraddire un’autorità!
Gli avvocati invece? Diventare avvocato è pur sempre difficile (gli studi, il maxi-concorso, il lunghissimo tirocinio), ma non quanto entrare nel giro dei notai. Gli avvocati ormai sono tantissimi; un numero enorme. Si tratta di una categoria che ha proliferato nel corso degli anni, coprendo più che capillarmente la domanda degli italiani. Oggi diventare avvocato significa prepararsi a lottare: i clienti devono essere conquistati sul campo. Nessuno busserà alla tua porta, giovane avvocato! Convincili invece, fidelizzali, ascoltali, consenti loro di parlare bene di te. Preparati a sentirti criticato, contraddetto e screditato. Ma su una cosa non lesinare mai lo sforzo: i clienti devono capire che possono contare su di te.
Torniamo a noi. Come si fa HR? Come si fa Organizzazione, come si gestisce il cliente interno in azienda? La scelta sta esclusivamente a noi. Ma gli HR più bravi amano girare per l’azienda. Parlano con le loro persone, vivono il corridoio. Se c’è un talento in azienda lo sanno già e le escogitano di tutti i colori per farne esprimere a pieno il potenziale. I bravi HR dialogano, ascoltano, propongono, sono smentiti sul campo. Dei veri e propri partner, di business e non.
Avvocato o notaio? Non me ne vogliano i notai, ma noi preferiamo essere avvocati. Perchè se un nostro cliente avesse timore di bussare al nostro ufficio, ci sentiremmo in qualche modo sconfitti. Perchè quando un nostro cliente va via, la prendiamo tremendamente sul personale. Perchè se perdiamo il presidio sulle nostre persone, ci sentiamo colpevolmente pigri.
Qui si parla di lavoro, ormai lo sappiamo tutti. Ma provate a sentirvi un po’ più “avvocati” anche nella vita. Probabilmente dopo una giornata di arringhe e discussioni, vi assaliranno stanchezza e stress; ma mi piace pensare che vi sentirete anche un po’ più soddisfatti di voi stessi.
Os
PS: JOBtalk propone di nuovo la JobMarathon. Il 19 settembre, in via Monterosa 91 a Milano, chiunque potrà leggere un brano che parla di lavoro. Come vedete l'ambiente di lavoro? Qual è la pagina che secondo voi interpreta in maniera più significativa lo spazio lavorativo?
Partecipate numerosi.

giovedì 10 settembre 2009

La distanza tra due punti X e Y

Giovanni e’ un bravo ragazzo timido ed innamorato. Avrebbe fatto di tutto per conquistare, Gaia, ed ormai da mesi le chiede di uscire. Gaia e’ la bellissima ragazza acqua e sapone della porta accanto che all’ennesima prova lo scoraggia definitivamente dicendogli “Se me lo chiederanno in 50.000 ti daro’ un bacio”. Giovanni torna a casa e decide di chiedere aiuto alla rete per realizzare il suo sogno d’amore. Costruisce un gruppo su facebook e lascia 4 messaggi su you tube. In soli 10 giorni, arrivano a Gaia oltre 50mila e-mail, più di 150mila utenti visitano il sito e più di 26mila contatti segnalano i video su You Tube. Giovanni e’ il protagonista di questo filmato (http://www.youtube.com/watch?v=tn5eiiyoyKk). Quella di “from Giovanni to Don Giovanni” e’ ovviamente una geniale idea pubblicitaria realizzata dalla famosa agenzia di Armando Testa, che ha vinto il leone d’oro a Cannes. Il mio capo non lo sa e gli invio il link prevedendo la reazione… come da manuale… Giovanni diventa il suo oggetto del desiderio! Esclama: “Contattiamo questo Giovanni dobbiamo assumere persone cosi’” quindi le spiego…, “Ah ok”. Questo e’ un esempio estremo tratto dalla mia realtà quotidiana. Il mio primo post vuole suggerirvi di evidenziare sempre durante i colloqui il vostro lato social addicted menzionando le community di cui siete membri attivi. Il recruiting sta cambiando, e l’abuso nel mio open space delle parole web 2.0 e marketing virale dimostra la crescente attenzione alle ormai necessarie web 2.0 attitudes. Attenzione, anche chi va fare controllo o hr deve averle. La storiella di Giovanni insegna come anche i recruiter non propriamente appartenenti alla generazione Y sono diventati sensibili al tema e drizzano le antenne, quando percepiscono da parte del candidato la capacità di realizzare un bisogno servendosi della potenza della rete. In questo momento la vera difficoltà dei recruiter X e’ quella di testare in profondità la conoscenza del mondo della rete. Profilando i diversi livelli a seconda della richiesta della posizione di destinazione. Domande del tipo “Mi fornisca una definizione di web 2.0” piuttosto che “Quali siti conosce che persone non web 2.0 non visitano?” possono andare bene ad uno step iniziale ma e con candidati senior ma entrano subito in crisi con i candidati Y. Mettere in evidenza durante i colloqui attività di comunicazione che per noi sono normali puo’ dare punti in piu’. Condividere grazie a google docs documenti con il proprio gruppo di studi Utilizzare form on line per ricerche e tesi di laurea (http://www.zoomerang.com/Customer%2DSatisfaction%2DSurveys) Avere un profilo su linked Scrivere su un blog Mantenere una propria pagina personale Lasciare il proprio video cv in you tube Seguire il guru del proprio ramo di studi su Twitter Cercare lavoro su Monster Sapere cosa sia una barcamp http://www.barcamp.org/ Sharare ed improvare il proprio CV con emurse Trovare contatti di lavoro con Xing (http://www.xing.com/) Dare visibilita’ ina america al proprio CV con resumebucket (http://www.resumebucket.com/) Costruire un CV virtuale con Visual CV (http://www.visualcv.com/www/indexc.html) Essere sempre connessi dal proprio telefono ed utilizzare i feed rss per informarsi A voi il completamento della lista ma se state leggendo questo blog e’ probabile che web 2.0 lo siate… Velocemente si e’ aperto un lack generazionale che solo voi potete colmare. Aiutare e qualche volta guidare l’interlocutore, e’ l’unica strada per il successo, diventa quindi fondamentale mettere in risalto anche cio’ che ormai e’ entrato nel nostro ordinario modo di comunicare ricordandosi che fino a pochi anni fa non lo era. Enjoy it (per la prima volta, con orgoglio) JAzz

martedì 8 settembre 2009

A colloquio con Chris Gardner (“Alla ricerca della felicità”) – Il VERO colloquio

Di ritorno dalle vacanze vorrei riportarvi a dove ci eravamo lasciati. L’ultimo colloquio che abbiamo analizzato insieme è stato quello di Chris Gardner ne “La ricerca della felicità” (http://thelovemyjobblog.blogspot.com/2009/07/colloquio-con-chris-gardner-alla.html). Come vi avevo anticipato, però, quella era solo la versione cinematografica dell’intervista: una versione in cui il colloquio – a parte qualche scivolone qua e là – era stato condotto in modo brillante da entrambe le parti. Volete scoprire come si è svolta quell’intervista nella realtà? Innanzitutto, per chi non lo sapesse, il film è basato su di una storia vera e Chris Gardner è una persona reale. Attualmente proprietario di una multimilionaria compagnia di intermediazione finanziaria (la Gardner Rich & Company), Chris Gardner ha deciso di pubblicare la sua autobiografia, che è forse una delle dimostrazioni più lampanti di come l’American Dream possa diventare realtà. Nel link qui di seguito trovate il passaggio del libro che descrive il colloquio, così come si è svolto realmente. http://docs.google.com/Doc?docid=0ARfhQVlYBt9kZGQzazc0OHFfOWY4d3FuNWY4&hl=en (prendetevi il giusto tempo per leggerlo!) La situazione è la stessa del film: Chris è stato convocato a colloquio da Bob, ma viene arrestato per insolvibilità e non ha tempo di cambiarsi d’abito prima dell’incontro. Tuttavia la scena a cui assistiamo ora è evidentemente molto meno brillante di quanto rappresentato dalla pellicola cinematografica. In questo colloquio Chris dà ben poco di suo. Gli basta nominare l’ex-moglie per ottenere la piena giustificazione del suo standing da parte dell’interlocutore. A questo punto è l’intervistatore a catturare la scena, dilungandosi ampiamente nei racconti legati ai suoi divorzi. Al termine della storia, il recruiter non gli fa nemmeno una domanda: Chris è così selezionato per far parte del programma di tirocinio. Davvero una brutta performance per un selezionatore! Ma analizziamo meglio gli sbagli più evidenti… Effetto alone. L’errore forse più evidente è l’effetto alone, di cui vi avevo già accennato nel post precedente. Quello che nel primo colloquio vi ho segnalato come un potenziale errore – evitato solo per il fatto che i selezionatori fanno diverse domande a Chris – qui è proprio “preso in pieno”. Al selezionatore basta sapere che Chris ha dovuto affrontare i fastidi e le difficoltà tipici del divorzio per pensare forse che egli possa già essere pronto a tutto. Errore di proiezione. A questo errore si accompagna quello altrettanto evidente della proiezione. L’intervistatore proietta cioè sul candidato il proprio modo di pensare e di vivere e valuta secondo le proprie esperienze. In questo caso, Chris sta affrontando una situazione che il recruiter ha già vissuto: questo appare ai suoi occhi come indice di affinità alle proprie caratteristiche e di conseguenza lo valuta positivamente. La dimensione personale. Il colloquio sconfina evidentemente nel personale. E’ del tutto normale che il candidato faccia riferimento alla sua vita privata durante il colloquio: lui è lì per raccontare di sé e le sue esperienze personali fanno parte di quel sé. Il selezionatore, però, è tenuto rigorosamente non solo a non approfondire questi accenni del candidato, ma anche a non esprimere le PROPRIE esperienze private. In queste occasioni infatti emergono emozioni personali e ricordi che possono diminuire la capacità del selezionatore di essere vigile e neutrale e fargli quindi abbassare la guardia e mancare di obiettività, per poi commettere gli errori di cui sopra. Nessuna domanda. E’ evidente poi che non fare nemmeno una domanda al candidato non è per niente intelligente. In questo caso non si analizzano né le capacità personali di Chris né la sua motivazione al ruolo. Certo, Chris si rivelerà un broker veramente in gamba: ma questo è solo l’epilogo di una storia, che dopo una selezione del genere poteva finire in ben altro modo. Se al posto di Chris ci fosse stato un altro candidato non in linea col profilo del broker e non motivato a crescere nel ruolo, l’azienda avrebbe formato per un anno, a 1.000 $ al mese, una risorsa che avrebbe abbandonato il programma o fallito nel test finale. Ma in questo disastroso esempio di colloquio ho trovato anche qualcosa di positivo che ci tengo a sottolinearvi. La capacità di ascolto di Chris. In questa scena lui non ha dovuto dimostrarci assolutamente nulla per passare la selezione. Ad ogni modo ci ha mostrato ancora una volta una caratteristica molto importante: l’ascolto dell’interlocutore. Come dice nel suo racconto, lui è lì per raccontare di sé e non è minimamente interessato allo sproloquio dell’intervistatore; tuttavia ascolta e si mostra interessato. Questa è la chiave non solo per fare buona impressione, ma anche per capire chi si ha di fronte e comprendere quale tipo di comunicazione e di argomentazione sarà più efficace nel discorso. La neutralità del selezionatore di fronte ai pregiudizi e alla prima impressione. Nonostante si trovi davanti una persona abbigliata come un inserviente (che lui palesemente scambia per tale), per giunta di colore (cosa abbastanza rilevante se consideriamo il contesto degli USA anni ’80), non si rifiuta di riceverla, ma anzi si interessa di approfondire quanto sta dietro quell’apparenza. Ecco che la realtà a volte può essere molto più complicata di quello che ci mostra il grande schermo :-)
Alice

domenica 6 settembre 2009

Silenzio per favore ... Devo rivoluzionare il mondo!

Avete mai avuto occasione di lavorare in open space? Un’interpretazione della vita d’ufficio che definirei un cult del mondo del lavoro tra la metà degli anni ‘90 ed i nostri giorni; uno spazio lavorativo caratterizzato da limitati elementi divisori tra le postazioni e rari momenti di vero silenzio, ma anche da estrema facilità di comunicazione e condivisione immediata di idee e punti di vista.
Perché alcune aziende hanno scelto di percorrere questa strada? Potremmo definirla una pratica strategia di Knowledge Management: il contatto visivo e uditivo con i colleghi facilita la trasmissione della conoscenza. Un semplice esempio: un neoassunto comprende i primi elementi della cultura aziendale semplicemente ascoltando come i colleghi più esperti discutono o interagiscono al telefono. A volte, molto più banalmente, si tratta di scelte di pura logistica: è molto più facile piazzare 15 persone in uno stanzone che far costruire 5 uffici separati. O pensavate che logiche di questo tipo non contassero in azienda?
In ogni caso - chi ha avuto esperienze di open space potrà confermare - la convivenza è difficile ed aziendalmente insidiosa. Chi stabilisce il confine virtuale tra il “mio” ufficio e quello dei colleghi? Perchè un confine ci deve comunque essere. In più, l’atteggiamento individuale verso la confusione, i dialoghi a voce alta o le conference call con 10 utenti che provano a sovrapporre le proprie voci è estremamente variegato all’interno della popolazione aziendale. C’è chi non riesce a concentrarsi senza un religioso silenzio ...
Come comportarsi per non disturbare i colleghi? Basta rispettare alcune semplici regole di convivenza. Capitolo voce: ricordatevi di tenere sempre e comunque sotto controllo il tono della vostra voce. E’ facile oltrepassare il confine e guadagnarsi le imprecazioni dei vicini. Stati d’animo: spesso l’incapacità di gestire lo stress si propaga facilmente all’interno dello spazio lavorativo, saltellando di collega in collega.
Ancora una volta, la moderazione è fondamentale: è vietato quindi rimproverare, inveire o disperarsi. Altri accorgimenti: abbassare il volume della suoneria dei telefoni e del PC; non abusare dell’aria condizionata, in un senso o nell’altro; evitare il consumo di cibi dagli odori forti ... e chi più ne ha più ne metta!Invece, per tutti coloro che vogliono prendersi una pausa dalla vita lavorativa in modalità “open”, consiglio di seguire (ovviamente nei limiti delle vostre possibilità) il metodo di Bill Gates.
Come riportato nel divertente blog di Riccardo Staglianò su Repubblica (http://stagliano.blogautore.repubblica.it/2009/08/10/le-vacanze-intelligenti-di-bill-gates/), il fondatore di Microsoft ama concedersi delle “think week” nel corso dell’anno. Si tratta di settimane vissute in un luogo segreto in completo isolamento dal mondo, durante cui leggere ininterrottamente i paper scritti dai suoi più fidati collaboratori. Argomento? Come rivoluzionare il mondo (dell’informatica). Distaccarsi, leggere, pensare e innovare. Il tutto riducendo al minimo ogni distrazione, perfino i pasti.
Pensate di poterci riuscire anche voi?
Nel frattempo ... (siamo tornati!) ... enjoy it!
Os

mercoledì 2 settembre 2009

Love My Job! torna in onda!

Vi siamo mancati? E' arrivato il momento di tornare in onda. Lunedì 7 settembre: non mancate! LMJ! Team.