giovedì 24 dicembre 2009

Buone Feste!!!



Cari LMJ! Fans,


anche Love My Job! andrà a festeggiare il Natale e l'anno nuovo, prendendo una piccola pausa invernale. 

Ma non preoccupatevi, non vi abbandoneremo!

Durante questo periodo di feste, abbiamo deciso di riproporvi una selezione di vecchi post molto interessanti.

Se non li avete letti in passato, è un'ottima occasione per farlo ora, durante le feste!

Come sempre fateci avere i vostri feedback!

Tantissimi auguri di Buon Natale!

LMJ! Team

venerdì 18 dicembre 2009

L’offerta al momento dell’assunzione: oltre alle cifre c’è di più!


Cari lettori, in questo breve articolo voglio riallacciarmi al tema del post precedente: in barba alla crisi, vorrei ancora parlarvi di stipendio. In particolare ispirandomi a due domande che spesso precedono la richiesta dell’aumento di cui abbiamo parlato la volta scorsa.

Vi è mai capitato di chiedervi:
- Perché mi è stato offerto questo stipendio dopo il processo di selezione? Perché non di più?

- Perché il collega che fa il mio stesso lavoro ed è entrato in azienda dopo di me ha uno stipendio più alto?

In un ambiente di lavoro, è umano fare confronti tra sé e gli altri. Non importa quanto siano ferree le regole di privacy e di passaggi di informazioni: le relazioni interpersonali fanno nascere i “rumors”; questi alimentano interrogativi latenti come quelli sopra, che fanno riflettere le persone su eventuali disequilibri di trattamento che l’azienda offre ai colleghi.

Qui di seguito cercherò in breve di descrivere in base a che cosa un HR consolida la cifra da proporre alla persona al momento dell’assunzione e di farvi capire che non si tratta di una decisione arbitraria, ma del risultato di un processo decisionale che tiene conto di parametri importanti.

Innanzitutto si parte dalla posizione da coprire con la nuova assunzione. A seconda del tipo di responsabilità che essa implica, della tipologia di mansioni e delle competenze che essa richiede, le è stato abbinato un livello contrattuale di inquadramento. Prima cosa che deve fare l’HR, quindi, è partire dalla fascia salariale che la legge stabilisce per quel livello, controllando nel Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro. Questo range salariale è poi di solito leggermente modificato da contratti integrativi aziendali oppure anche solo dalle politiche retributive interne dell’azienda. Queste modifche di solito comportano l’innalzamento del limite minimo di stipendio per ciascuna fascia (garantendo così sempre qualcosa in più rispetto al minimo del CCNL) e/o soglie massime di stipendio per ciascun livello.

Il range retributivo così determinato viene quindi confrontato con l’attuale retribuzione del candidato, se questo già lavora presso un’altra azienda. Questa operazione permette innanzitutto di verificare se il costo della persona può rientrare nel budget che l’azienda ha a disposizione (e che purtroppo di questi tempi spesso non permette di offrire i valori massimi delle fasce). Inoltre, ovviamente l’attuale retribuzione fungerà da punto di partenza della nuova offerta: di sicuro, per convincere una persona a spostarsi, non si può scendere al di sotto della cifra che già riceve! Fanno eccezione solo alcuni ruoli particolari che permettono di poter abbassare il lordo annuo, per alzare poi la parte variabile dello stipendio (ad esempio nel passaggio ad un ruolo commerciale).

Questo meccanismo spiega in particolare la seconda domanda riportata all’inizio del post: a volte una persona assunta da un’altra organizzazione, con qualche anno di esperienza alle spalle, finisce per avere uno stipendio più alto rispetto ad una persona che ha sviluppato la stessa indentica seniority nel ruolo, ma crescendo dall’interno. Questa è forse una delle cose che alimentano i peggiori sentimenti di ingiustizia, perché chi è cresciuto in azienda si aspetta anche “qualcosa in più” rispetto ad un “nuovo arrivato”!
Ecco, in aziende sane il modo migliore per ristabilire l’equità interna è pareggiare gli stipendi degli interni con quelli del neo-assunto dall’esterno. Di questi tempi però, non è così semplice e spesso le riduzioni di budget a seguito della crisi economica fanno sì che le situazioni di disparità si prolunghino un po’ di più nel tempo.

In effetti, questo tipo di equità retributiva interna è talmente importante da rappresentare un secondo parametro che l’HR deve prendere in considerazione per formulare l’offerta. Infatti qualsiasi persona, dopo il suo inserimento, si troverà ad operare in un determinato team, di cui l’HR dovrà tenere in considerazione le peculiarità retributive, facendo in modo che l’offerta al candidato sia quanto più coerente possibile con quelle fatte in passato ai suoi potenziali colleghi. Un’armonizzazione di questo tipo ha lo scopo di impedire l’insorgere delle sensazioni di ingiustizia, che all’interno di un team sarebbero deleterie per i risultati e il clima di lavoro.

Come terzo punto l’HR prenderà in considerazione l’esperienza della persona, verificando quanti anni ha già lavorato nel ruolo, con quali responsabilità, etc. Più la persona è esperta, più la posta in gioco sale!

Infine, si terranno conto di “varie ed eventuali”: contro-offerte che la persona può ricevere dalla sua azienda (in questo caso occorre valutare se valga la pena alzare la posta in gioco), trasferimenti di città (valutare quanto viene richiesto dal candidato per lo spostamento), etc.

Ovviamente io sin qui ho parlato del processo dal punto di vista HR, ma ricordatevi che l’ownership del processo è della "linea", ossia dei responsabili della posizione in questione: sono loro infatti a mettere a disposizione il budget e quindi sono loro ad avere l’ultima parola sulla cifra di agreement finale. Il processo che sopra ho descritto, nelle aziende con una radicata professionalità HR, viene solitamente condiviso passo passo con la linea e le decisioni prese insieme. Ma tenete presente che non funziona così dappertutto: la possibilità per le risorse umane di lavorare alla definizione dell’offerta e presidiare il processo dipende dal tipo di ruolo che l’organizzazione accorda alla funzione HR!

E dopo tutto ciò… sta alla persona accettare o meno! Cari candidati, ricordatevi sempre che la decisione finale spetta solo a voi! Dalla mia esperienza di recruiter, so bene che può capitare (più spesso di quanto si immagini!) che - dopo aver sudato sette camicie per alzare l’offerta, ricevere autorizzazioni in tempi record, venire incontro alle esigenze dei vari interlocutori, etc. – il candidato non accetti (o si ritiri)… Per l’HR non c’è nemmeno il tempo di accusare il colpo……. la “caccia al candidato” deve ricominciare subito :-)


Alice

lunedì 14 dicembre 2009

Ci sono ancora i capi “maestri”?



In un mondo in cui tutto è velocità, fretta, (quando non frenesia), c’è ancora tempo per fermarsi ad imparare?

Come sono state le nostre esperienze con i nostri capi? Esistono ancora i capi “Maestri”?
Quei capi cioè che non solo sanno dare l’esempio di “come si fa”, ma che sanno anche raccontare “come deve essere fatto”.

Sanno ancora, i capi, dedicare tempo all’insegnamento? Sanno “allevare” coloro che guideranno l’organizzazione di domani?

Il buon capo dovrebbe essere in grado di trasmettere non solo le tecniche (che poi possono essere imparate sui libri, nei seminari, tramite gli e-learning), ma anche (e forse soprattutto) le conoscenze personali acquisite in anni di esperienze sul campo.

Da una parte i capi (spesso giovani capi, ancora indecisi sul proprio stile manageriale, e iper-concentrati sul sé), dall’altra i giovani collaboratori che desiderano occupare sempre più in fretta posizioni apicali.

In qualche modo si viene a perdere “la gavetta” o il “praticantato” (che solo a citarli sembra collocarsi al di fuori dal tempo e di leggere una pagina del libro “Cuore”).

Nelle botteghe artigiane, ci si formava (non solo semplice istruzione tecnica, ma vera formazione), si imparava, poi finalmente si poteva, a propria volta, divenire maestri. Oggi vi è una certa tendenza a perdere tutto questo.
Effettivamente se si pensa alle botteghe artigiane odierne, molti “maestri” si lamentano che i giovani non sanno più aspettare. D’altra parte i giovani vorrebbero gavette maggiormente tutelate (contratti, contributi …).

Senza “affiancamento”, quanto patrimonio si perde? Quanti errori saranno rifatti, che si sarebbero tranquillamente potuti evitare, solo perché nessuno si è fermato a raccontare che a sua volta quell’errore lo aveva già fatto?

Quante aziende oggi si possono ancora definire “scuole”. Quante organizzazioni si occupano realmente di management nel senso più pieno del termine?

Abbiamo iniziato parlando della velocità. Forse con dei bravi maestri, i tempi (di apprendimento, di realizzazione) si potrebbero anche velocizzare.

E nella nostra esperienza i capi come sono stati?

Sarà un caso, ma oggi anche le grandissime corporation che avevano il vanto (con tutti i pro e contro di questa scelta) di “allevare” i leader del proprio domani direttamente dal loro interno, nel momento delle scelte più significative si rivolgono all’esterno.  

Bisognerebbe, forse, ritrovare gli spazi per un rapporto capo-collaboratore fatto di tempi per l’ascolto reciproco, la condivisione delle esperienze (e dicono alcuni anche delle emozioni).

Risuonano le parole del filosofo francese Gilles Deleuze: “Maestro non è chi dice << fai così >> ma << fai con me >>"



Eugenio Pelitti

martedì 1 dicembre 2009

I want it all… and I want it now! Ovvero come chiedere l’aumento dello stipendio

Doverosa premessa a questo argomento, che è arrivato su LMJ a grande richiesta dei nostri lettori, è un piccolo chiarimento sul tema “stipendio”. Vorrei cominciare facendo notare come esso dipenda non tanto da decisioni arbitrarie del vertice aziendale, quanto invece da tanti altri fattori contingenti, quali: le regole di base poste dai contratti collettivi nazionali, i piani salariali utilizzati dalle aziende concorrenti, i trend economici, lo “stato di salute” aziendale, le competenze e l’esperienza pregressa che ciascuna persona porta in azienda e, last but not least, la performance della persona. Addirittura, nelle aziende più grandi e strutturate, tutte queste informazioni confluiscono in un salary plan, ossia in uno schema che individua minimi e massimi salariali (fasce o range di salario) per ciascun livello di seniority. In questi contesti, le revisioni dello stipendio sono costanti e attuate annualmente tramite una salary review che solitamente coinvolge nella sua messa in atto diversi dipartimenti aziendali (finance, HR, marketing, etc.).

L’obiettivo di questa premessa era farvi capire che purtroppo in molti casi non è così semplice come sembra per un capo concedere un aumento. Detto questo, ogni richiesta è legittima, poiché è bene manifestare subito ogni problema appena si presenta. Quindi voglio provare qui di seguito a darvi qualche consiglio per chiedere il tanto agognato aumento. Ovviamente, per parlarne con il proprio responsabile occorrerà chiedere espressamente un colloquio per poterne parlare in privato. Relativamente a questo incontro, voglio individuare tre fasi che comportano azioni differenti.

LA FASE PRE-RICHIESTA O DI PREPARAZIONE.

Questa fase è fondamentale per l’efficacia dell’incontro. Prima di esporsi chiedendo un aumento di stipendio, occorre, per quanto possibile, documentarsi sulla fattibilità di questa azione.

1. Per prima cosa consiglio di informarsi sull’attuale politica dell’azienda in fatto di salari, vale a dire: si stanno concedendo aumenti a qualcuno? Ci sono restrizioni nel reparto (Cassa Integrazione, esuberi, etc,)? L’azienda sta vivendo un periodo di austerity? Purtroppo oggi sono casi molto comuni… Se la risposta è sì, meglio aspettare tempi migliori per questo tipo di richiesta!

2. Se invece appurate che qualcosa continua a “muoversi”, procedete a una verifica del vostro stipendio attuale rispetto a quanto accade all’esterno. Non è detto infatti che la nostra percezione sia fondata, se rapportata a quanto succede fuori della nostra azienda. A questo proposito, suggerisco di prendere spunto dallo strumento sopra citato della salary review. Questo tool si basa solitamente su di un report che sintetizza la situazione salariale dei vari livelli di seniority all’interno delle altre aziende. Nel nostro piccolo, possiamo anche noi fare una cosa del genere! Provate a fare una piccola indagine di mercato tra le persone che conoscete e indagate cosa viene solitamente offerto a profili e livelli simili al vostro. Siamo sicuri che il vostro stipendio si meriti una “ritoccatina” rispetto a quello che succede ad altri?

3. Se anche in questo caso avete ragione di credere di avere le carte in regola per un aumento, vi chiedo di procedere ad un’auto-valutazione obiettiva e neutrale della vostra performance. Le aziende infatti non possono concedere aumenti periodici, se le persone non portano valore aggiunto alla performance; altrimenti il rischio è che le persone non percepiscano più la necessità di impegnarsi e crescere nel proprio lavoro. Anche in questo caso uno strumento utilizzato nelle grandi aziende può essere d’aiuto per auto-valutarsi in modo obiettivo e realista: la valutazione della performance. Co questo tool ogni anno si stabiliscono obiettivi individuali il cui raggiungimento poi viene verificato l’anno successivo. Allo stesso modo, nel nostro piccolo possiamo chiederci quali fossero i nostri obiettivi e se li abbiamo raggiunti, se la nostra performance professionale è stata sempre costante o se è migliorata, se ci sono state affidate nuove responsabilità che stiamo sostenendo con successo, se stiamo sostituendo dei colleghi o supportando altri in nuove mansioni, etc. Sono queste infatti le cose che possono costituire un valore aggiunto per l’azienda e possono giustificare un aumento di retribuzione!

4. Con queste verifiche vi consiglio di costruire una sorta di “scaletta” per il discorso con cui affronterete l’incontro. Mi raccomando, per ciascun punto portate sempre esempi concreti! Attenzione a non presentare semplicemente delle idee o delle sensazioni personali: per ciascun motivo per cui sentite di meritarvi l’aumento, esprimete al capo esempi reali, al fine di istaurare un dialogo quanto più possibile ancorato a fatti davvero accaduti, che di certo non potranno essere messi in discussione.

LA RICHIESTA VERA E PROPRIA DURANTE IL COLLOQUIO COL CAPO.

Una volta richiesto un incontro personale con il vostro responsabile, durante il colloquio esponete le ragioni verificate nella fase precedente con toni sempre pacati e concilianti. Come ho già detto, infatti, non è automatico per un capo poter concedere aumenti, quindi, se volete persuaderlo per lo meno a portare avanti la vostra richiesta, è importante che non vi presentiate in modo arrogante o polemico. Inoltre, a prescindere dalla risposta che vi darà, con il tono adeguato potete assicurarvi che l’incontro non provochi il deterioramento dei rapporti professionali per il futuro.

Per quanto riguarda invece la cifra da chiedere, non puntate ad aumenti impossibili – tenete presente che gli aumenti possono collocarsi di solito tra il 5 e il 10% dello stipendio. Sappiate inoltre che l’incontro non sarà altro che una negoziazione, quindi utilizzate tutti gli accorgimenti del caso.

Ultimo consiglio, lasciate spazio al vostro responsabile e fatelo parlare il più possibile, anche se capite che la sua risposta sarà negativa. Oltre a lasciare in lui una buona impressione, infatti, questo approccio vi aiuterà a scoprire qualcosa in più sulle scelte aziendali e sulla situazione organizzativa.

LA FASE POST-RISPOSTA O COSA FARE DOPO IL COLLOQUIO.

Dopo la risposta del capo, sia essa positiva o negativa, cercate di capire bene cosa il responsabile si aspetta da voi nell’immediato futuro. Se vi concedono l’aumento: si aspettano qualcosa di più da voi? In questo caso focalizzatevi qui questi nuovi obiettivi per far sì che un nuovo aumento si possa ripetere anche in futuro. Se non ve lo concedono: chiedete al vostro responsabile dove dovete ancora migliorare, con quali scadenze, etc. Fate quindi tutto il possibile per perfezionarvi nel vostro ruolo e giustificare una nuova richiesta di aumento dopo qualche tempo.

Per concludere vorrei approfondire il discorso sulla difficoltà per il capo/l’azienda di concedere un aumento. Aumentare lo stipendio è di certo un modo positivo di offrire riconoscimento alla persona, ma per l’azienda secondo voi dove sta il valore aggiunto? In fondo, anche prima dell’aumento, la persona lavora. E come ho già detto il rischio è che con aumenti non legati alla performance le persone non percepiscano più la necessità di un miglioramento costante. Ecco quindi che l’aumento per le aziende diventa vantaggioso solo nel momento in cui si accompagna a percorsi di crescita individuale. L’azienda è fatta di persone e come tale può crescere solo quando sono le persone stesse a crescere. Solo quando una persona avanza nelle proprie responsabilità o nella quantità dei propri compiti o nelle specializzazioni professionali, l’azienda avrà un concreto vantaggio dalla sua performance e avrà motivo di offrirle un meritato riconoscimento.

Un proverbio cinese recita: “Chi chiede può essere stupido per cinque minuti. Chi non chiede è stupido per tutta la vita”. Eh sì, assolutamente chiedere un aumento è sempre lecito! Tuttavia spero che quello che ci siamo detti possa farvi capire che il modo migliore per chiederlo è mettere da parte le ingenuità del “voglio tutto e subito” e avanzare la domanda con consapevolezza. Consapevolezza di cosa rappresenta un aumento per un’azienda, di cosa lo giustifica, di quale atteggiamento è più efficace per negoziarlo e di quali azioni devono seguire la richiesta.

Alice

domenica 22 novembre 2009

Il recruiting secondo Love My Job!


«"Ho sempre visto il mestiere del cacciatore di teste un po' come..." Mi interrompo, imbarazzata, e prendo un sorso di vino. Una volta ho spiegato a Natalie la mia teoria sui cacciatori di teste e lei ha detto che ero pazza e dovevo guardarmi dal raccontarlo in giro.

"Come cosa?"

"Be', come un'agenzia matrimoniale: abbinare la persona giusta al lavoro giusto".

Pare divertito. "E' un modo diverso di vederla: dubito che la maggior parte delle persone qui dentro sia interessata ad una storia d'amore con il proprio lavoro..." commenta facendo un gesto circolare verso la sala affollata.

"Forse lo sarebbero se trovassero il posto che fa per loro" ribatto. "Se si potesse far avere alle persone esattamente quello che desiderano..." »

- Sophie Kinsella, La ragazza fantasma, 2009 (Mondadori).

lunedì 16 novembre 2009

Il patto di prova come prolungamento del processo di selezione

Il primo post di Pier Paolo Sposato ci aiuta ad approfondire i dettagli del  periodo di prova ... perchè tutti noi abbiamo iniziato/inizieremo un rapporto di lavoro "provando". Gustatevelo e visitate il blog di provenienza del post per approfondire il tema.

Il fatto che uno dei post più cliccati del blog sia quello sul patto di prova mi fa supporre che questa sia una problematica emergente; è ormai da tempo che le aziende usano il periodo di prova come prolungamento del processo di selezione e ciò sta creando delle distorsioni in quello che era lo spirito della legge. E’ sufficiente osservare le sentenze che si sono succedute nel tempo, per comprendere che la magistratura del lavoro é stata chiamata diverse volte a stabilire la validità o meno del patto di prova, insistendo molto sulla necessità che, nei contratti di lavoro, siano specificate in modo chiaro ed esauriente le mansioni affidate al dipendente, poichè, in caso contrario, il patto di prova sarebbe nullo.


L’utilizzo del periodo di prova come prolungamento del processo di selezione, a mio parere, introduce un comportamento datoriale chiaramente sfavorevole per il dipendente che, in certe situazione può avere conseguenze drammatiche. Premesso che il licenziamento durante il periodo di prova, se non motivato, é legalmente condannabile qualunque sia il dipendente coinvolto, faccio notare l’enorme differenze d’impatto psicologico e sociale a seconda si si tratta di persona alla ricerca di un primo impiego o di persona che stia cambiando azienda.

Un individuo che stia cercando di cambiare lavoro, azienda, mansioni, non darà mai le dimissioni dalla sua attuale azienda sino a quando non gli verrà consegnata una lettera d’impegno dal nuovo datore di lavoro; il processo di selezione deve terminare a quel momento ed il periodo di prova deve servire al datore di lavoro a verificare se il nuovo assunto sta svolgendo le mansioni assegnate in modo accettabile; licenziarlo durante il periodo di prova significa mettere una persona in mezzo ad una strada e, pertanto, la magistratura deve valutare con maggiore attenzione queste interruzioni di rapporti di lavoro.

Ho due esempi che sono dimostrativi di comportamenti aziendalmente corretti e scorretti; nel primo caso il datore di lavoro ha specificato al dipendente che l’avrebbe confermato solo se, durante il periodo di prova, fosse riuscito a favorire un processo di fusione con la sua vecchia azienda. Il candidato, non sentendosi all’altezza della richiesta, ha rifiutato la proposta di lavoro a quelle condizioni.

La seconda azienda ha invece proposto al candidato un contratto con periodo di prova, limitandosi a citare la mansione, senza neanche descriverla in dettaglio; a pochi giorni dall’inizio della nuova attività il dipendente si é visto presentare degli obiettivi personali di tali dimensioni che, se gli fossero stati prospettati durante il processo di selezione, non avrebbe mai accettato di firmare. Questo individuo é stato licenziato alla fine del periodo di prova perchè non ha dato i risultati che l’azienda si attendeva.

Faccio notare che, stante l’attuale legislazione, questa persona sembra non avere alcuna protezione; chiedo alla magistratura se é giusto ritenere valido un licenziamento del genere. Ritengo che l‘art. 2096 del c.c. dovrebbe essere modificato nel senso di obbligare i datori di lavoro ad inserire, nei contratti con patto di prova, il dettaglio delle mansioni e dei risultati attesi nei mesi di prova.

giovedì 12 novembre 2009

Le novità di Love My Job!

Ladies & Gentlemen,

sentite quest'aria fresca, questo profumo indefinibile di mille culture che si uniscono? ... Che profumo è? Ve lo diciamo noi, è il profumo dell'internazionalità, della globalizzazione ... è il profumo del mondo! Presto sulla bella terrazza fiorita di Love My Job! troverete un angolo tutto speciale, in cui si parlerà di imprenditorialità, lavoro ed altro ancora nella lingua globale! Interviste a Love My Job! Spirits provenienti da tutto il mondo, esperienze di italiani all'estero, post ad - hoc sulla scena internazionale e davvero tanto altro!

Per l'inaugurazione dell'angolo ci sarà un'intervista speciale, un vero uragano di emozioni e consigli imprenditoriali ... Tutto questo e molto altro su ... The English Corner!

You Can't Miss It!

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Vi piace quest’idea? E non vogliamo di certo fermarci qui! Molti di voi ci hanno chiesto di provare a diversificare i contenuti che postiamo sul blog e noi non potevamo fare altro che accontentarvi. The English Corner è la prima novità ... Ma ne abbiamo una seconda in serbo per voi! Oltre ad un occhio decisamente più internazionale, il Team ha deciso di fornirvi anche una prospettiva più “specialistica” sul mondo del lavoro.

Come sapete infatti, la nostra mission è parlare di lavoro a 360 gradi. Detto questo, non possiamo trascurare l’approfondimento degli aspetti giuslavoristici che disciplinano il rapporto di lavoro. Ad esempio, capiremo bene le differenze tra lavoratore autonomo e lavoratore subordinato, oppure conosceremo i diritti/doveri del lavoratore e del datore di lavoro. Attenzione però: in questo caso “importeremo” i contenuti da un blog amico, curato da un professionista del settore e focalizzato sui temi che vi abbiamo accennato.


Per iniziare a farvi un’idea, date un’occhiata al blog ed al suo autore.

Siamo confidenti che apprezzerete i nostri sforzi per fornirvi contenuti di qualità sempre maggiore ... Ma voi continuate a seguirci! Commentate i post, dite la vostra sui temi che vi proponiamo. Love My Job! non può prescindere dal contributo della community e noi abbiamo bisogno del vostro entusiasmo per andare avanti.

Buona lettura!

LMJ! Team

lunedì 9 novembre 2009

A colloquio con Ale e Franz (parte seconda)… La location del colloquio


Welcome back: la scenetta di Ale & Franz che vi ho proposto nel mio ultimo post), come anticipato, mi ha offerto diversi spunti di riflessione. Oltre alle occasioni – ahimè – di errore del selezionatore, mi ha fatto anche ripercorrere con la mente le varie location dove ho affrontato colloqui (sia come candidata sia come selezionatore). Infatti nello sketch citato il povero Ale, oltre a dover affrontare un recruiter tiranno, deve addirittura incontrarlo nel suo ufficio, entrando attraverso una porta chiusa, in un ambiente del tutto privato e che – oserei dire – simboleggia un certo status: qui il recruiter si trova completamente a proprio agio e quindi in una situazione “di vantaggio”. Penso che chiunque si sentirebbe un po’ in soggezione prima di entrare in un posto simile!

Allora capite bene che anche il luogo dove si svolge il colloquio è una variabile molto importante, che può condizionare l’esito di un incontro. Per questo motivo, ogni selezionatore, così come è tenuto a pianificare gli aspetti più teorici del colloquio (leggendo in anticipo job description e CV, preparando una scaletta, etc.), dovrebbe anche occuparsi di preparare al meglio la location. Il modo di utilizzare e organizzare lo spazio a disposizione può infatti favorire (o deteriorare!) l’efficacia del colloquio, creando (o impedendo!) occasioni di apertura del candidato e lasciando un ricordo positivo (o negativo!) dell’esperienza alla persona.

Ma vediamo nella teoria quali potrebbero essere alcuni accorgimenti utili per organizzare un colloquio in una location “favorevole” al dialogo col nostro candidato.

Innanzitutto, occorre a mio avviso evitare il colloquio in stanze private, come quella della scenetta, e allo stesso tempo in posti troppo “pubblici” (pensiamo ad esempio a un ufficio open space). A mio avviso la scelta più efficace è quella di un luogo quanto più possibile neutro, come può essere una sala riunioni, dove recruiter e candidato abbiano la privacy necessaria all’incontro, pur trovandosi in uno spazio comune e non di presidio del solo selezionatore. Infatti, anche se il recruiter conosce già quello spazio, egli non lo gestisce né organizza in autonomia e questo favorisce la percezione nel candidato che il valutatore sia disposto a porsi sul suo stesso piano e ad aprirsi al dialogo.

Un altro accorgimento intelligente è rappresentare quanto più possibile l’azienda all’interno di questo spazio, sempre per agevolare un ricordo positivo del colloquio nel candidato, a prescindere dall’esito dello stesso. Un’azienda di beni tangibili di piccole dimensioni ad esempio può mostrarli in una teca; le aziende di servizi possono presentare le pubblicità più famose; oppure si può dare enfasi ai valori aziendali con speciali comunicazioni interne. Importante è anche mettere a disposizione qualche brochure che il candidato possa portare con sé al termine dell’incontro per ricordarsi dell’azienda.

Inutile dirlo poi, far sì che il candidato trovi tutto il materiale necessario per un colloquio: ad esempio fogli dove annotare appunti e contatti, penne, etc. Queste cose infatti non servono per forza solo al recruiter che prende appunti durante l’intervista!

Un capitolo a parte poi lo meriterebbe la prossemica, anch’essa molto importante per influire sul clima e sulla relazione durante il colloquio. Diverse collocazioni delle persone nello spazio hanno significati diversi. Ad esempio, sedersi a lato del candidato può favorire uno scambio più informale, mentre posizionarsi di fronte implica una certa distanza che può aiutare a mantenere formalità nell’incontro. In ogni caso mai fare l’errore di allestire lo spazio come un’aula da interrogazione scolastica, dove il recruiter si trova magari dietro una grande scrivania, seduto su una grande sedia, in posizione rialzata, mentre il povero candidato si trova costretto a guardarlo dal basso verso l’alto, seduto su una seggiolina stile Fantozzi: qui rischierebbe di sentirsi più che altro sotto interrogatorio. E di certo, in questo caso, oltre a non favorire un dialogo aperto, non riusciamo nemmeno a favorire un bel ricordo dell’esperienza per la persona.

Detto questo, tutto ciò che vi ho scritto finora è ovviamente “as it should be”: la perfezione dei libri di teoria HR … Ma avrete già capito che spesso nella vita aziendale reale le soluzioni perfette non sono sempre possibili e ci si deve accontentare di quelle “ottimali”. Nelle mie esperienze personali come recruiter e come candidata ho già vissuto colloqui tenutisi nei seguenti luoghi:

- sala riunioni enorme, dotata esclusivamente di un tavolo altrettanto enorme, e completamente vuota per il resto, dove ogni singola parola rimbombava come nel Gran Canyon

- sala riunioni confinante con la meeting room che ospitava un’assemblea sindacale dai toni particolarmente accesi, dove il candidato poteva “respirare un ridente clima aziendale” sentendo urlare insulti e informazioni confidenziali sui dipendenti

- bar sotto l’azienda, quando per ragioni di clima interno non si riteneva opportuno mostrare ai dipendenti i candidati per una posizione

- archivio polveroso, quando molto semplicemente gli altri recruiter avevano già prenotato e occupato tutti gli spazi comuni disponibili.

Insomma, i casi di location non proprio da manuale sono all’ordine del giorno. Per cui, se dovesse capitarvi una situazione del genere, ai candidati suggerisco di non farsi intimidire o deludere da questo primo impatto. Così come nel mio ultimo post dicevo ai recruiter che non sempre la prima impressione sul candidato rende giustizia, vale anche il contrario. Voi candidati siate comprensivi, perché a volte la situazione di disagio è dovuta solo a problemi organizzativi contingenti e non perché l’azienda non ci tiene a voi! Ai selezionatori non chiedo di mettere in pratica il feng shui nella location del colloquio, ma semplicemente do your best perché lo spazio a disposizione sia il più favorevole possibile allo scambio col candidato e ne guadagnerete anche in termini di risultati. Se ci dovessero essere situazioni borderline come quelle esemplificate sopra, siate trasparenti con il candidato e spiegate i motivi il più apertamente possibile; dopo di che cercate di condurre il colloquio nel modo più brillante che potete per rendere l’esperienza comunque positiva per la persona che avete di fronte.

Alice

martedì 3 novembre 2009

E' morto il CV


Cari lettori di Love My Job!, oggi abbiamo l'arduo compito di annunciare al mondo la morte del Curriculum Vitae.

Ne diamo il triste annuncio, ricordando l'enorme importanza che questo strumento ha avuto nei processi di recruitment.

Il CV soffriva da tempo di un male inguaribile e tremendo allo stesso tempo. Alcuni esperti hanno parlato di obsolescenza.

A breve forniremo maggiori dettagli sulle circostanze dell'improvviso ma annunciato decesso.

Cordoglianze alla famiglia (ricordiamo che anche la lettera di motivazione soffre di un'analoga patologia).

Os

lunedì 2 novembre 2009

A colloquio con Ale & Franz… Ovvero gli errori del selezionatore


Questa divertente scenetta di Ale & Franz mi ha offerto diversi spunti parlare dell’esperienza di colloquio. In primis il selezionatore Franz – particolarmente severo con il povero candidato Ale, che cerca in tutti i modi compiacerlo – mi ha fatto venire in mente un argomento che ho solo sfiorato nel mio post “A colloquio con Chris Gardner", ma che mi pare interessante sviluppare in questa sede: gli errori del selezionatore. Si tratta di una serie di errori di valutazione che è facile commettere anche nella vita quotidiana e dai quali quindi un bravo selezionatore deve sapersi guardare. Spesso questi errori vengono presentati ai corsi di formazione per selezionatori e personalmente, durante la il mio periodo formativo, erano diventati ciò che temevo di più del mestiere, prima di iniziare a svolgerlo in prima persona. Ma vediamoli più nel dettaglio qui di seguito – questa volta parlo meno direttamente a voi “candidati” che state leggendo, ma penso possa essere un’occasione interessante anche per chi non fa selezione, per comprendere meglio il mondo di quei recruiter che incontreranno a colloquio.

1) Severità: l’errore di severità (il primo che mi è venuto in mente nello sketch) si ha quando si tende a valutare negativamente i candidati su cui si è incerti, pensando in questo modo di non sbagliare … “Nel dubbio lo metto negativo”… Sbagliato! Se ci sono dei dubbi, si devono fare ulteriori verifiche: fare altre domande durante il colloquio oppure addirittura fissare un secondo colloquio.

2) Tendenza centrale: anche qui si manifesta quando si è indecisi nella valutazione, solo che in questo caso la tendenza è rimanere neutrali per non sbagliare. Magari il candidato non ha dato elementi sufficienti per la decisione oppure, come prima, si ha paura di sbagliare. Vale lo stesso consiglio di cui sopra: sempre cercare di approfondire per arrivare ad un giudizio completo.

3) Effetto alone (già citato nel post sopracitato): è l’estensione della valutazione di una caratteristica sulle altre, utilizzandola quasi da guida per interpretare tutto il resto. Altro errore simile a questo è lasciarsi colpire da una qualità “scioccante” in positivo o in negativo, che va neutralizzare tutto il resto (quando ci ricordiamo di una persona solo per quel particolare, dimenticando le altre cose che ha detto/fatto). Per evitare questi due errori, consiglio di prendere sempre appunti dettagliati durante il colloquio e stendere la valutazione qualche tempo dopo, a mente fresca, dopo che le sensazioni si sono affievolite, prendendo in considerazione l’intero contenuto di ciò che ci siamo appuntati.

4) Prima impressione: "La prima impressione è quella che conta"… Sì, è vero: è inevitabile che condizioni tutte le altre. Ma sapendolo, cerchiamo di non lasciarci condizionare troppo, perché non sempre la prima impressione rende giustizia, soprattutto ad un colloquio, quando il candidato si trova in una particolare situazione di stress!

5) Stereotipi e predizioni auto-avverantisi: se partiamo a priori con dei pregiudizi, finiremo per interpretare l’intera relazione utilizzando queste idee come chiavi di lettura e confermando perciò quanto immaginato inizialmente. Inutile dire che occorre essere consapevoli del possibile sbaglio; dopo di che, consiglio di chiedersi alla fine del coloquio: “Quando gli ho stretto la mano, cosa mi aspettavo dal colloquio? Perché?”. In questo modo ci renderemo conto se siamo partiti condizionati dai pregiudizi e potremo eventualmente rivedere la valutazione.

6) Ordine di informazione (detto anche “sandwich effect”): le prime e, soprattutto, le ultime informazioni, sono quelle che rimangono più impresse nella memoria. Ecco perché nei discorsi si inseriscono introduzioni accattivanti e finali a effetto. Il consiglio anche qui è prendere sempre appunti dettagliati, per poter rivedere in seguito il quadro completo.

7) Proiezione e Equazione Personale: il primo significa trasferire sugli altri il proprio modo di pensare e valutare la persona partendo dalle proprie esperienze e dal proprio modo d’essere; l’altro è la tendenza a valutare le persone secondo il modo in cui valutiamo noi stessi, considerando quindi positivamente chi ha le nostre stesse caratteristiche e negativamente chi ha caratteristiche diverse. Per non sbagliare, suggerisco di stendere la valutazione tenendo sempre sott’occhio la job description per essere il più obiettivi possibile rispetto a ciò che è richiesto dall’azienda. Inoltre, ricordiamoci che possiamo anche avvalerci di test psico-attitudinali, come supporto obiettivo alla nostra valutazione!

8) Gli standard: valutare negativamente le caratteristiche non affini al profilo ricercato. Teniamo presente che presto potrebbero aprirsi altre posizioni che quella persona potrebbe essere adatta a ricoprire.

9) Punti deboli: questo errore si verifica quando, dopo qualche domanda, si trovano nel candidato alcuni punti deboli rispetto alla posizione e se ne ha eccessivamente timore, non rendendosi conto che magari sono anche poco importanti per la posizione. Consiglio: quando troviamo punti deboli, verifichiamo subito cosa si può colmare con formazione ed esperienza on the job (e in quanto tempo): magari ci renderemo conto che non sono un problema insormontabile!

10) Effetto di contrasto: succede quando una persona si distingue da tutte quelle che l’hanno preceduta. Ad esempio, dopo aver visto a colloquio due o più profili non idonei, è facile che, se incontriamo un candidato anche solo di poco più adatto alla posizione rispetto ai precedenti, la valutazione risulti assolutamente positiva. Per ovviare a questo errore è utile avere una griglia di valutazione il più dettagliata possibile (e in questo le aziende grandi e strutturate aiutano) rispetto alla posizione; inoltre, fa comodo tenere un archivio delle valutazioni di tutti i candidati per potersi confrontare con quanto espresso in passato per profili simili.

Insomma, come vedete, cari candidati, anche il selezionatore deve fare attenzione a come si comporta durante un colloquio! Questi errori sono spesso citati nei libri di formazione e, come ho già detto, spesso incutono timore a coloro che dovranno selezionare new comers, anche perché spesso, quando se ne parla, si costruisce attorno questo alone di ineluttabile e non viene suggerito come evitarli. Per questo, sopra ho cercato di dare alcuni consigli per evitarli; consigli nati tutti dall’esperienza pratica. Ai futuri selezionatori dico quindi che non bisogna temere il momento della valutazione, perché è sufficiente seguire qualche piccolo consiglio all’inizio e lasciarsi guidare dall’esperienza in seguito. Per riassumere, direi che il miglior inizio è partire con la consapevolezza del fatto che è possibile commettere questi errori e seguire qualche accorgimento per evitarli, prendendo appunti, tenendo sempre come riferimento la job description, partendo da una griglia di valutazione ben chiara, aspettando un tempo ragionevole per stendere la valutazione a mente fresca e confrontarsi con le valutazioni in archivio di altri candidati. Vi assicuro che dopo poco tempo riconoscerete le vostre “debolezze” e saprete come evitarle!

Con questo non ho esaurito gli spunti che mi ha offerto la scenetta di Ale & Franz: perciò vi invito a seguire il prossimo post per un'altra riflessione sul colloquio!

Alice

mercoledì 28 ottobre 2009

Anche noi abbiamo i nostri piccoli inconvenienti ...

Per problemi "tecnici", rimandiamo a domani il post di GiuS!

Non mancate.

Os

domenica 25 ottobre 2009

Pillole di Downshifting e il mito della vita Slow ...


Basta, non ne posso più. Mollo il lavoro e mi apro un bar ai Caraibi!
E se ci perdo in guadagno, ci vinco in salute ...

  

Quante volte abbiamo sentito pronunciare (o abbiamo pronunciato) una frase del genere? La routine, la nebbia e la pioggia, i lunedì, il traffico e il parcheggio che non c'è, un capo/collega difficili da gestire, un progetto stressante e perchè no un problema personale ... Capita di non riuscire a trattenere, almeno verbalmente, la voglia di mollare tutto, di cambiare il proprio stile di vita e stabilirsi in un posto rilassante come quello rappresentato nella foto. Ma cosa resta al di là delle parole?

Ai nostri giorni riusciamo a dare un nome ad ogni emozione, ad ogni sfogo, ad ogni volontà presunta o reale ... tutto deve avere il proprio nome ... meglio ancora se in inglese, che fa molto più chic. Ed allora qualcuno ha pensato bene di affibiare alla scelta volontaria di rallentare il nomignolo Downshifting. Parola composta, che ha una forte assonanza con i concetti di ridurre la marcia oppure, parafrasando il lemma del mio impolveratissimo New Oxford Dictionary, scambiare una carriera economicamente soddisfacente ma stressante, con uno stile di vita più lento e meno redditizio.

"Lentezza" è una buona chiave di lettura per capire bene di cosa stiamo parlando. Mentre mi documentavo per saperne di più sull'argomento Downshifting, sono stato immediatamente colpito dai Tweet di Carl Honore, un giornalista canadese autore di un fortunatissimo libro intitolato In Praise of Slowness: How a Worldwide Movement Is Challenging the Cult of Speed.

L'opera definisce le teorie del Movimento della Lentezza (per maggiori informazioni, visitate il sito di Slow Planet): lavorare, giocare e vivere meglio facendo ogni cosa alla velocità giusta. Insomma, se non ci lasciamo prendere dalla frenesia, possiamo condurre una vita migliore. Un esempio? Non riesco a non citarvi il post In Praise of Slow Sex, sempre scritto da Honore. E' la vicenda di due amanti che interrompono l'atto sessuale perchè lei ha ricevuto un SMS sul suo iPhone e decide di leggerlo e scrivere una risposta ... Poi, con invidiabile naturalezza, chiede al suo imbarazzatissimo amante di riprendere ... Non stupitevi perché una ricerca dice che 1/5 di noi si lo fa!

E' verissimo, si tratta di un estremo. Ma il concetto è virtuoso: riappriopriarsi della propria vita gradualmente potrebbe renderla più sostenibile, per usare uno degli aggettivi più in voga del momento. Probabilmente riusciremmo a capire meglio il valore delle cose, delle emozioni. Il Corriere della Sera ha recentemente dedicato un articolo sull'argomento. Racconta la svolta di vita di un ex-manager di una delle più importanti aziende di consulenza: ad un tratto, il protagonista ha deciso di mollare tutto e dedicarsi alla scrittura, alla vela, all'agricoltura. La sua giornata tipo non ha nessun programma predefinito, mentre prima di lasciare il lavoro la sua vita era pianificata per i successivi 5 anni. Oggi Simone Perotti (guardate il suo profilo su LinkedIn), si dichiara "Scrittore e Navigatore @ Nessuna Azienda". E consiglia a chiunque di fare una scelta come la sua. Fantastico.

Adesso torniamo al principio. Come considerare l'idea di lasciare il proprio lavoro per cominciare una semplice attività imprenditoriale? Qui inizio ad avere qualche dubbio. Chi pensa che Downshifting sia aprire un ristorantino potrebbe in realtà incappare in un brutto errore di valutazione. Prendiamo il caso del ristorante: avete idea delle difficoltà che caratterizzano un'attività come questa? Proveniendo da una famiglia di ristoratori, parlo per esperienza personale: se non si è disposti a mettersi all'opera dalle 9 alle 24 (sono nei feriali, nei festivi è molto di più), a non avere praticamente nessuna pausa nel corso dell'anno, a sostenere sulle proprie spalle tutto il peso imprenditoriale ... Lasciate perdere! E lo stesso vale per bar, enoteche e via dicendo.

Cari lettori, come sempre la verità sta nel mezzo. Rallentiamo pure i ritmi della nostra vita, diamo maggiore peso alla work-life balance, alimentiamoci meglio. Questo è Downshifting. Ma se avete intenzione di lasciare il vostro lavoro per aprire il famoso bar sulla spiaggia dei Caraibi ... Probabilmente non avrete fatto altro che mettere la quinta! Altro che freno motore!

Os


giovedì 22 ottobre 2009

Se potessi avere 1.000 EURO al mese ... Ovvero rispondere alla domanda: “Quanto si aspetta come stipendio?”

Parlando di colloqui con amici e conoscenti, mi sono sentita chiedere spesso: “Cosa mi consigli di rispondere se mi chiedono quanto mi aspetto di stipendio?

Proprio l’altro giorno mi sono resa conto che spesso i recruiter considerano la domanda una routine, ma in realtà dalla parte del candidato suona piuttosto strano sentirsi chiedere quanto si vorrebbe ricevere come remunerazione. Il tema dei soldi è sempre piuttosto delicato da toccare … In particolare in questo periodo di crisi economica, dove sembra che nessuno sia più disposto a sostenere dei costi. Perciò spesso la paura è che l’azienda scarti subito la nostra candidatura se solo chiediamo un centesimo in più di un altro candidato in lista per la posizione. E quello che mi sento ripetere spesso, in qualità di recruiter è: “Ma perché mi fanno questa domanda? E’ normale che me l’abbiano fatta?

Normalissimo, direi. Nel caso in cui avete già un contratto sapere qual è l’attuale retribuzione e conoscere le aspettative rispetto ad un nuovo lavoro (ad es. se si è disposti a cambiare lavoro solo con un aumento retributivo) è fondamentale per la costruzione di un’offerta interessante per il candidato. Come al solito, consiglio la massima trasparenza sia sulla situazione salariale al momento sia su cosa ci sia aspetta da una nuova azienda. Ma questa domanda è importante anche quando chiesta a neolaureati senza esperienza o comunque che non hanno mai avuto un contratto di lavoro diverso dallo stage. Vediamo perché – nel seguito del post mi rivolgo soprattutto a loro.

1) Prima motivazione, molto concreta: verificare che le aspettative del candidato rientrino nel budget che l’azienda mette a disposizione.

2) Secondo: la risposta a questa domanda da parte di un neolaureato/stagiaire può essere molto utile per il recruiter per verificare quanto il candidato è attento a cosa accade nel mercato del lavoro e proattivo nell’informarsi su quanto le aziende stiano offrendo al momento per una certa posizione. Inoltre l’attenzione a questi dettagli più “hard” del rapporto di lavoro (in aggiunta – ovviamente non in sostituzione! – di quelli più “soft” sul contenuto del ruolo) dimostra la concretezza della persona e il pragmatismo nella pianificazione del proprio percorso professionale.

3) Per rispondere a questa domanda poi è necessario che il candidato abbia anche consapevolezza delle proprie skill e delle proprie competenze e sappia proiettarsi nel mondo del lavoro in modo coerente con il proprio profilo – e ascoltare la risposta, per il recruiter, è l’occasione per verificare questa “self-knowledge”.

4) Dalla risposta si evince anche qualche informazione sulle aspirazioni del candidato: chiedere uno stipendio esageratamente basso spesso (non sempre ovviamente – occorre verificare a colloquio) deriva da una situazione di disoccupazione che dura da troppo tempo e dalla quale il candidato vuole uscire a tutti i costi; per cui non gli importerà il lavoro che andrà a compiere e la sua motivazione nel ruolo potrebbe essere quindi compromessa. Chiedere invece una cifra molto alta, se si è appena laureati o “freschi di stage”, potrebbe equivalere invece a sovrastimarsi e a mostrarsi esageratamente arroganti nei confronti di un’azienda che potrebbe offrire una prima esperienza lavorativa.

5) Infine, proprio perché questa domanda risulta abbastanza delicata e spesso crea disagio, è un buon modo per il recruiter per testare la gestione dello stress del candidato e il suo grado di sicurezza nell’affrontare una situazione – diciamolo pure – di negoziazione.

Se la domanda è così importante, cosa rispondere dunque? Il mo consiglio è avanzare la richiesta di uno stipendio nella media di quanto offerto dal mercato. In questo modo, se l’azienda fosse costretta a offrirvi di meno (e voi intendeste accettare lo stesso), potrete sempre dire che valutate comunque positivamente la proposta alla luce dell’interessante posizione proposta. Se invece l’azienda potesse offrirvi anche di più, tanto meglio; di sicuro non sarete valutati negativamente come dicevo sopra (al quarto punto) se avanzate una richiesta in linea con il mercato.

Resta quindi solo più da identificare qual è questa cifra in linea con il mercato. Innanzitutto consiglio di fare un confronto con amici e conoscenti che già lavorano con contratto e che hanno lo stesso titolo di studio e un profilo simile al vostro. Poi non dimenticate di fare un confronto tra le diverse tipologie contrattuali – ad esempio, tenete presente che contratti come quello di Apprendistato Professionalizzante può comportare uno stipendio annuo più basso di un normale tempo determinato o indeterminato per via del basso inquadramento, ma permette comunque di percepire un netto mensile superiore alle altre tipologie contrattuali, poiché i contributi INPS saranno solo dell’5,84% (differentemente da quanto succede a un dipendente con contratto a tempo determinato o indeterminato, i cui contributi vanno dal 9,19% al 9,49%).

Altro consiglio, di solito con questi ragionamenti si arriva ad avere un’idea di quanto sarebbe il mensile (magari al netto di tutte le possibili trattenute) che volete percepire, ma i recruiter sono abituati ad avere a che fare con la prospettiva della RAL (Retribuzione Annua Lorda). Quindi provate a trasformare il vostro mensile netto in un annuo lordo. Per il calcolo del lordo, ogni persona è a sé stante, in quanto la cifra dipende da Regione di residenza e carichi familiari. Per questo consiglio di utilizzare alcuni strumenti che si trovano facilmente online e che effettuano il calcolo automaticamente. Vi suggerisco il sito de La Repubblica, dove potete sbizzarrirvi a provare diverse RAL e a verificare al volo a quanto ammonterebbe il netto mensile.

Infine, per mostrare ancora una maggiore consapevolezza e per ottenere qualche informazione in più in base alle quali accettare o meno la proposta, al termine del colloquio potete anche chiedere al recruiter se sono previsti dei benefit, come ad esempio servizio mensa o ticket restaurant, navetta aziendale, foresterie, etc.

Per concludere, calcoli e precisione a parte, prima di un colloquio, vi suggerisco di canticchiare davvero “Se potessi avere … € al mese …” e di farvi davvero un’idea delle vostre aspettative, confrontandole poi con quanto succede nel mercato. In questo modo, non solo avrete risposto in modo deciso ad una domanda in più del colloquio, ma avrete anche una buona conoscenza di base per dar il via alla vostra contrattazione retributiva con l’azienda!

Alice

domenica 18 ottobre 2009

Quando il gatto non c'è i topi ballano ... o si mettono a gareggiare?

Oggi Love My Job! prende in prestito la locandina e la trama di un film comico  del 2001, (regia e produzione di Jerry Zucker) per parlare di un fenomeno abbastanza diffuso in certi ambienti di lavoro: il Rat Race.


Molti di voi non ne hanno mai sentito parlare, pur essendone - inconsapevolmente - protagonisti. Che cos'è il Rat Race? Esaminiamo la trama del film per cominciare a capire. 8 persone si contendono senza esclusione di colpi una cassetta di sicurezza contenente 2 milioni di dollari. Solo il fortunato vincitore si aggiudicherà il malloppo. Ma l'intensità della competizione porterà ad un nulla di fatto ...

Vi comincia a venire in mente qualcosa? Esaminiamo la voce di Wikipedia: "A rat race is a fierce competition to maintain or improve one's position in the workplace or social life. This term presumably alludes to the rat's desperate struggle for survival (Source: www.yourdictionary.com)." Adesso dovrebbe essere tutto chiaro: si tratta di una competizione spietata per migliorare la propria posizione, nel lavoro o nella vita in genere. Con quali risultati? Be, basta pensare alla corsa in circolo dei topolini ...

E ora ditemi: è capitato anche a voi? Aver timore di lasciare l'ufficio - a lavoro finito - solo perchè i colleghi sono ancora lì a smanettare sul proprio PC. Dover aspettare che vada via l'ultimo impiegato dell'azienda cliente (e magari sono già le 9 di sera) prima di abbandonare "la stanza" dei consulenti. Sentirsi in qualche modo "costretti" a fare qualcosa in più. Produrre quantità e nessun valore aggiunto.  Impegnarsi ad attendere sempre e comunque l'uscita da lavoro del capo, perchè "se lui/lei si accorge che sono ancora a lavoro avrò più possibilità di essere notato prima degli altri".

Il Rat Race è un chiaro esempio di circolo vizioso. Pur avendo concluso il mio lavoro, non lascio l'ufficio perchè vedo i miei colleghi ed il capo ancora al PC. Ma è possibile che anche loro stiano pensando/agendo in questo stesso modo (magari ad eccezione del capo). Il primo che esce libera gli altri. Lo chiamate lavoro questo? Lo potreste mai amare?

Cari lettori, sapete qual è l'unico criterio a dover determinare la quantità di tempo passato in ufficio o la quantità di lavoro prodotto? Il valore aggiunto, la qualità. Il concetto stesso di Rat Race viene a crollare nel momento in cui si riesce a dare un reale contributo. Capita di fare le 9 di sera in ufficio per concludere una riunione di brainstorming. Uscire dopo il capo per concludere le slide della presentazione che lui/lei farà il giorno dopo: saremo apprezzati per il contributo, non per essere rimasti un poco in più in ufficio.

A volte sono proprio gli ambienti di lavoro a causare questa forma insana di competizione. Alcune aziende provano a testare la resistenza allo stress dei propri dipendenti proponendo ad esempio contratti a tempo determinato che prevedono la forma "in or out" al termine. Sapendo che solo alcuni si guadagneranno l'"in", i dipendenti decidono irrazionalmente di competere sulla quantità, più che sulla qualità. 

Altro effetto non trascurabile di questo tipo di politiche: cosa accade ad i rapporti tra le persone coinvolte? I "topolini" smettono di condividere le informazioni che permetterebbero a tutti di fare un lavoro qualitativamente migliore; il teamwork si attenua irreversibilmente a discapito di un inconcludente arrivismo individuale; aumentano i conflitti interpersonali, incrementando il livello di stress e distruggendo il clima aziendale. Vorreste mai lavorare in un tale scenario? 

E' certamente più facile a dirlo che a farlo: in questi casi bisogna provare a non farsi coinvolgere nella gara. O almeno, il consiglio è quello di provare a spostare la competizione sul campo della qualità, tenendo bene a mente l'importanza di una work-life balance equilibrata. E' qui che il talento viene fuori e non c'è orario o gabbia che tenga.

Enjoy it (per la 50esima volta)!

Os