Una fresca primavera
I raggi del sole come ogni mattina primaverile si facevano strada tra i palazzi per raggiungere, in fondo allo stretto vicolo, i vetri azzurati di uno dei più grandi grattacieli di Milano.
Maestoso ed austero, come vuole la tradizione milanese, ma eppure appena percepibile. Nascosto.
Dagli inizi degli anni sessanta era la sede di una delle più importanti multinazionali presenti in Italia.
Il caffè preso sulla terrazza del 18° piano era particolarmente dolce. La catena del Rosa era luccicante come non ricordavo di averla mai vista.
Il sole appena tiepido illuminava la grande sala riunioni allestita per l’occasione.
Tutti i dipendenti erano stati chiamati a raccolta dalla Direzione del Personale con un laconico messaggio di posta elettronica inviato a notte inoltrata la sera prima.
“Gentili Colleghi, la Direzione desidera invitarvi domani mattina ore 10.00 per comunicazioni sull’organizzazione”.
Il messaggio l’avevo inviato io.
In ascensore e nel breve tragitto che dal piano della direzione portava alla sala riunioni l’atmosfera era strana. Un misto di paura, tensione, sconforto.
E una preoccupante allegria innaturale.
Accompagnavo il mio capo. Il Direttore Centrale del Personale. Il corridoio stretto e lungo, quella mattina fu lunghissimo.
La sala era allestita nella classica disposizione a teatro. Stranamente tutti erano in perfetto orario; quasi si percepisse che qualcosa stava per accadere.
Da quel giorno veramente nulla è stato più come prima; qualcosa si è spezzato e non è stato più ricomposto.
Un silenzio artificiale permeava la grande sala. Rotto solo dallo spostarsi nervoso delle sedie del Direttore del Personale e Finanziario, che si accingevano a prendere parola.
Non era mai successo che prendessero parola insieme.
“Colleghi dobbiamo dare informazione…….che… la società ha deciso…….ristrutturazione…sapete……i mercati…..outsourcing verso l’Europa dell’est e l’India per….. i servizi finanziari, l’informatica e le risorse umane”.
Il silenzio è totale. Solo qualche rumore che viene dalla strada fa da sfondo.
L’attenzione è massima.
Qualche mano si muove nervosamente in cerca di un appiglio che non troverà.
“Capiamo lo sconforto…anche noi…..non abbiamo dormito…..i risultati di business…..ecco…poi la casamadre vuole una organizzazione più veloce…..ne consegue…”
Più che altro incredulità. Ci si guarda.
…..troppe sedi….Milano…la sede storica…..chiude…mobilità..forse la cassa…..la società si trasferisce nella capitale.
Niente altro. Qualche lacrima.
Ma soprattutto incredulità.
L’estate è strana
La sequela di incontri con i dipendenti e le organizzazioni sindacali è stata lunghissima.
E poi sono iniziate le dimissioni. In tutte le aree dell’organizzazione e a tutti i livelli.
In tutta Europa.
Il tournover era sempre stato a livello fisiologico di mercato; ora quel mercato lo stavamo inondando di risorse.
Nel frattempo il clima nei corridoi era altalenante, sfiducia, sconforto, tristezza, speranza, ancora sfiducia.
La sala caffè ora stracolma, ora desolata.
La grande mensa prima chiassosa, ora pensierosa.
I primi articoli apparsi sulla stampa venivano riprodotti ed affissi nelle bacheche poste su tutti i piani.
Via via che il tempo trascorreva le occasioni di incontro ufficiale (uno degli “asset” sempre ritenuti fondamentali dalla cultura dell’azienda per il coinvolgimento) venivano posticipate e poi definitivamente annullate.
Qualche speciale televisivo su ciò che stava accadendo veniva seguito con grande interesse.
L’autunno
Il più gelido che si ricordi.
Continuavano le uscite, sempre più scrivanie vuote, al punto che alcune aree venivano chiuse.
Il 14°piano completamente vuoto.
Fu chiuso.
Troppo insistente era la lunga teoria di persone che volevano vedere un piano completamente sgombro. Né scrivanie, né pareti divisorie. Un solo grande locale. Enorme. Con la luce che lo attraversava da parte a parte. Non era più stato così dagli anni 60. Quando il “building” come era affettuosamente chiamato era stato inaugurato.
Iniziavano le prime trasferte romane. Sempre più frequenti. Sempre più persone.
Inizio ad andare a Roma. Una, due, tre volte la settimana.
E l’impegno di tutti immutato. Non un cedimento professionale, non un segnale di stanchezza.
Nella loro fredda routine, le riunioni sindacali procedevano incessantemente secondo uno schema di riti e simboli precodificato.
Ecco i primi fischi.
Ecco apparire i primi striscioni, le prime ore di sciopero con i campanacci a richiamare l’attenzione.
Ecco i tentativi di coinvolgere le Istituzioni, che forse a causa del freddo, a parte qualche scarno comunicato, non si lasciarono coinvolgere.
Le serate in ufficio si fanno più lunghe. Ogni giorno gli incontri diventano più intensi. Le storie personali affiorano ad una ad una come fiori spazzati dal vento. Intrecci di racconti, di vite.
Durante uno sciopero ero dietro ad una finestra a guardare dall’alto la piccola folla che manifestava. Quanti volti, quante storie. I più giovani li avevo assunti io. Ero accanto al direttore generale. Una bella donna, con una lunga esperienza all’estero. Ricordo che quel giorno era vestita di celeste. Ne rammento lo sguardo triste.
Inverno e qualche mese in più
E’ passato un anno dall’inizio.
Ho perso molti colleghi.
Effettivamente l’outsourcing si organizzò. Così come la cassa e la mobilità con tutte le loro fredde, ma in qualche modo rassicuranti, routine.
Inizio ad essere sempre più presente nella capitale.
Continuo a perdere colleghi, amici, compagni di squadra. Molti li accompagno alla porta io stesso.
Anche dall’estero mi arrivano laconiche mail di saluto. Quello che sta facendo l’Italia lo stanno facendo tutti.
Il Palazzo ha chiuso. I vetri azzurri ora sono solo grigi. Le tende sempre aperte ora sono tirate.
La nuova sede ora è nella capitale.
E’ stata una vera e propria “rifondazione”, non un semplice trasferimento.
La società che ora esiste è completamente diversa e differente da quella che c’era prima.
Coloro che hanno gestito la transizione ora sono tutti altrove (d’altronde vale sempre il vecchio detto: chi chiude, non può essere colui che riapre), ma i legami che sono nati sono tutt’ora intatti e producono proficue occasioni di incontro, amicizia, lavoro.
L’avvocato generale, lascia. Si riavvicina alla sua famiglia. Il brand manager si iscrive ad un MBA in America e lascia. La sales manager ritorna in Trentino e segue l’imprenditoria familiare che aveva lasciato. Qualcuno accetta qualche esperienza internazionale. La decisone finale è rimandata al rientro. Il giovanissimo talento del finance, lascia. A nulla valgono i pacchetti di retention creati appositamente.
Il mio assistente lascia. Il suo ultimo giorno è per entrambi di ricordi e di bilanci.
Inizio a guardare nei miei cassetti.
Sono stati anni bellissimi.
Per tutti.
Volti giovani e anziani. Maestri e discepoli.
Una scuola di vero management.
Il mio capo lascia.
Me ne vado pure io.
Se si potessero raccogliere i sogni notturni, e gli incubi, che le donne e gli uomini, i più giovani ed i più vecchi hanno fatto durante l’anno che è durato dall’annuncio alla chiusura definitiva, si potrebbe avere materiale per interi anni di studio di una facoltà di psicologia.
Mi piace ripensare a quei momenti, e a tutto ciò che ho imparato con una domanda presa in prestito dal Piccolo Principe:
"Ma allora che ci guadagni?".
"Ci guadagno il colore del grano”
Quel colore lo porto sempre con me.
Eugenio Pelitti
Che storia...
RispondiEliminaE' la prima volta che leggo la gestione del cambiamento da questa prospettiva "emotiva", vissuta in prima persona e in prima fila.
Grazie davvero
Davvero un contributo significativo.
RispondiEliminaPerò non concordo su un aspetto: chi chiude può essere benissimo il nuovo da cui ripartire.
Avete presente Bondi? Era stato scelto come semplice traghettatore per curare il fallimento di Parmalat, ma non si è fermato lì: ha riportato l'azienda ad essere sana e competitiva sul mercato.
Chi ha la flessibilità mentale giusta può effettivamente essere il leader del nuovo corso, dopo aver guidato la fine del vecchio.
Mattia
Perchè no, effettivamente colui che chiude può essere poi il punto di riferimento per il nuovo corso. Chi conosce l'azienda più di chi ha lavorato giorno e notte durante la transizione? Di certo bisogna trovare la persona giusta e sono sicuro che si tratta di un compito piuttosto difficile.
RispondiEliminaProbabilmente però l'esigenza del nuovo è troppo forte in questi casi...
"molti li accompagno alla porta io stesso".
RispondiEliminaeugenio, hai detto tu stesso che hr è il lavoro più bello del mondo...ma in questi casi?
come si fa a mandare via persone con cui hai condiviso tanti anni di lavoro?
mic
un contributo eccezionale.... dietro alla "maschera" che ognuno di noi si deve dipingere in faccia ogni mattina, dal lunedì al venerdì di ogni settimana, ci sono uomini e donne con dei sentimenti.... pelle d'oca....
RispondiEliminaCiao Mic,
RispondiEliminabeh …
in questi casi conta molto la professionalità (sia del singolo che – non deve mai essere dimenticato - del contesto aziendale in cui si è inseriti).
Non possiamo pensare di fare questo mestiere solo nei momenti felici; dobbiamo essere in grado di gestire anche le situazioni meno piacevoli: serietà, coerenza e senso di responsabilità sono fondamentali.
Grazie per il tuo messaggio,
Eugenio
Complimenti Eugenio! Di sicuro l'animo di chi ha chiuso non è quello di chi riapre, nonostante sia la stessa persona. In questo dici il vero: è l'intimo che conta, e non vogliamo essere insensibili in questo lavoro. Grazie per questa emozionante condivisione.
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